La sagoma scura del carrarmato campeggia sulla copertina rossa, tra le fumate delle granate, bianche come il titolo: 2017, war with Russia. Sugli scaffali delle librerie londinesi, dov’è appena uscito, fa un bell’effetto, con quei caratteri grandi e un po’ retrò, stile anni ‘70. Chi l’ha scritto non è affatto un vecchio nostalgico, uno scrittore di fantaguerre o un veggente guerrafondaio. Assai peggio. L’autore è sir Alexander Richard David Shirreff, generale degli ussari reali e vicecomandante della Nato in Europa (Sace) fino a un paio d’anni fa, dopo aver attraversato tutte le guerre recenti per conto di sua maestà britannica, dalla prima all’ultima nel Golfo, passando per il Kosovo. Un “senior military command” – un ufficiale superiore, uso agli alti comandi e agli stati maggiori – che, fresco di pensione, oltre a ricoprire il ruolo di colonnello onorario all’università di Oxford e consulente nel direttivo di Genderforce (un’associazione non profit che si prefigge di combattere le violenze sessuali e di genere nelle zone di conflitto), ammonisce il suo paese e l’Europa sulla guerra più che prossima, imminente. Addirittura nel maggio 2017, esattamente tra un anno, assicura sir Shirreff con militaresca precisione: quando Putin invaderà i paesi Baltici e aprirà un corridoio in Ucraina per annettersi definitivamente la Crimea. Ergo, occorre fare in fretta per prevenire la catastrofe, magari con una bella guerra preventiva al mai domo orso eurasiatico.
La prova generale s’è appena conclusa con due imponenti manovre che hanno coinvolto i paesi Baltici: Baltops, nel Mar Nero, e Anakonda (il nome, un programma), dove venerdì truppe e carrarmati hanno attraversato la breccia di Suwałki, il corridoio di 65 chilometri tra Kaliningrad e la Bielorussia. Ventre molle della Nato, secondo la propaganda del Pentagono, in caso d’invasione russa delle tre repubbliche baltiche. All’esercitazione, tra le più importanti dal dopoguerra, con contingenti di 24 paesi Nato ed ex sovietici schierati contro Mosca, compresa la Georgia e l’Ucraina, hanno partecipato oltre 30mila unità, in gran parte polacche e statunitensi, 3mila mezzi tra blindati e corazzati, un centinaio di aerei e una decina di navi. I russi, da parte loro, hanno incrementato di tre divisioni la loro forza lungo la frontiera occidentale dove corre la nuova cortina di ferro (vedi cartina Limes sotto) e avviato i lavori nella nuova gigantesca base di Klintsy, a una cinquantina di chilometri dal confine ucraino, divertendosi a sorvolare a distanza ravvicinata le navi dell’Alleanza Atlantica durante le manovre marittime.
Ora, sarebbe una bel wargame se la compassata regina Elisabetta, nel suo rituale discorso a Westminster di metà maggio, non avesse sussurrato ai valletti che la rivestivano di mantella e corona: «Sta arrivando una tempesta, la Gran Bretagna non ne ha mai viste di eguali. La seconda guerra mondiale sembrerà una buca sulla strada in confronto a questa. Ho il dovere di informare i miei sudditi». Pare che l’augusta monarca, nel suo fuori onda subito stoppato dalla Bbc, si riferisse al Brexit, a cui è più che favorevole, ma altri assicurano trattarsi del vaticinio del suo ex generale. Più mediaticamente, è intervenuto il misurato conduttore di Rai storia, Massimo Bernardini, in una puntata dedicata al ritorno della guerra fredda. E qui, visto che tre fatti non fanno un caso ma una prova, scatta uno scampanìo d’allarme.
Ché la guerra fredda sia tornata nelle sue forme più virulente è sotto l’occhio di tutti, visto l’andazzo delle guerre in corso in Siria e in Ucraina e il dispiegamento della barriera missilistica antirussa in Romania e Polonia, freschi acquisti della Nato e in prima fila nell’accodarsi ai desiderata di Washington contro la Russia. Ché alla guerra calda si giunga non più attraverso lo scontro ideologico tra l’Occidente e l’ex Unione Sovietica, ma nell’ambito della moderna dottrina Wolfowitz – ossia l’affossamento di qualsiasi ipotesi di potere bipolare o multipolare ostile all’unica superpotenza globale – in uso al Pentagono dai tempi del crollo dell’Urss è più che un’ipotesi di nemesi storica.
Rimettiamoci la maglia, i tempi stanno per cambiare, cantava Battiato. Che i tempi siano cambiati e, più della maglia, ci sia bisogno d’una corazza è all’evidenza nell’Europa dell’Est proprio con la decisione di dare corpo allo scudo missilistico – nome in codice Shield – che riporta l’orologio della storia indietro di trent’anni, nel pieno della guerra fredda con l’Unione Sovietica. È appena divenuta operativa una delle due basi da cui partiranno gli intercettori in grado di abbattere ogni missile in volo da oriente, quella di Deveselu, in Romania, a meno di 200 chilometri a sudovest di Bucarest. Contemporaneamente, sono partiti i lavori nell’altra sede – da ultimare nel 2018 – che chiuderà la tenaglia antimissilistica dalla base polacca di Redzikowo, presso Kaliningrad, l’ultima enclave russa in Europa.
Ideato alla metà degli anni ‘90, in risposta alla minaccia nucleare iraniana, il sistema di difesa Aegis Ashore, costato 800 milioni di dollari, è destinato in teoria a proteggere l’Europa da missili provenienti dal Medio Oriente. Ora che quella minaccia è scemata, grazie agli accordi con Teheran, non si vede a che serva lo scudo. A Mosca, però, hanno le idee chiare. «Qui non si tratta dell’Iran, ma dell’arsenale nucleare della Russia, ne siamo sicuri non al 100% ma al 1000%», dichiara l’ammiraglio Vladimir Komoyedov, presidente della commissione difesa della Duma. «La Nato non vuole un confronto con la Russia né mira a una nuova guerra fredda», replica il segretario della Nato, Jens Stoltenberg. «Il dispiegamento di un sistema di difesa anti missile pone una minaccia alla Russia – ribatte il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov – stiamo già adottando misure di sicurezza». E c’è chi, tra i consiglieri di Putin, ventila l’uscita dal trattato Start per la riduzione delle armi strategiche, o il rafforzamento di analoghe armi a difesa della federazione.
Al di là di quanto la Russia possa tollerare una simile spina nel fianco, lo scudo è la riprova non solo della spaccatura in seno all’Alleanza, con Francia, Germania e Italia a far da passacarte alle direttive angloamericane rafforzate dalle fobie antirusse dei membri dell’Est europeo, quanto della sua miopia. «Sarebbe ora che la Nato pensasse seriamente a irrobustire le sue capacità per battere il terrorismo anziché far credere al mondo che il nemico sia la Russia», sottolinea l’ex capo di stato maggiore Leonardo Tricarico. Difficilmente da Roma o da Washington gli daranno ascolto. Alla Casa Bianca, tanto per dire del climax, Obama s’è visto recapitare una letterina firmata da una cinquantina di diplomatici che lo invitano a bombardare senza complimenti Assad per farlo sloggiare, e tanto peggio per i suoi amici russi. Un consiglio che jena Hillary è prona ad accogliere. Non resta che sperare in Trump, che dichiara di voler gettare nel cestino della carta straccia la dottrina in voga al Pentagono dai tempi di Bush e di considerare Putin un galantuomo. Affidarsi a un pazzo per salvarsi da una follia. Quanto a Renzi, nel suo recente incontro con il presidente russo, all’indomani delle nuove sanzioni approvate dall’Ue fino al prossimo giugno, tra un tweet e un selfie ha ribadito ai russi che chi parla di nuova guerra fredda è fuori dal tempo e dalla storia. Rimettiamoci la maglia. Anzi, l’armatura.
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