Livorno omaggia Mario Puccini Scrissi d'arte

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Se t’avvicini con naso alla tela pare di sentirlo ancora, l’odore del mare. Quello che sale dal porto, la brezza marina che dai rivi s’infila su, pei campi e la macchia; l’olio dei tonni in scatola col quale stemperava i colori, in mancanza di meglio. Ci mancava il covid perché l’opera di Mario Puccini (1869-1920) subisse in morte le tribolazioni in vita. L’anniversario della scomparsa del pittore livornese d’indubbio talento e certo ingegno doveva celebrarsi un anno fa ma, causa le note vicende, solo ora le sale del museo cittadino vedono l’inaugurazione della mostra del centenario. Nei locali del lazzaretto effigiato in due grandi tele dallo stesso artista, esposte a fondale tra gli orci d’olio – l’olio, ancora – che si dava ai morituri nel “luogo pio”. Centoquaranta pezzi, tele d’ogni formato, disegni e bozzetti in massima parte suoi e qualcuno dei coèvi e sodali: il maestro Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Plinio Nomellini, Alfredo Muller. Un corpus che deriva in gran parte dalla collezione di Ugo Rangoni, raccolto a cura di Nadia Marchioni, ed esposto nelle sale del museo d’arte contemporanea livornese rinato nel 2018 nei locali degli ex magazzini oleari, i bottini. Dopo Modigliani, altra gloria cittadina, Livorno celebra così, in questo “luogo pio” riconsacrato all’arte, un altro dei suoi figli celebri, contemporaneo all’altro sebbene meno noto e dal destino diverso.

Van Gogh involontario. Così ebbe a definire Puccini un critico, Emilio Cecchi, al tempo in cui la fama del maestro olandese era ignota ai più. E così riporta il sottotitolo dell’esposizione e il bel catalogo Pacini. L’etichetta lascia il tempo che trova, come ogni categorizzazione, ma da allora s’è attaccata al barbiglio del pittore livornese e tutto sommato non gli nuoce, anche se distante dal vero. Certo, echi della pennellata immaginifica e rasposa di Van Gogh posso trovarsi in certe tele del pittore livornese: vedi Il fienaiolo o Vele al vento, ma sono più omaggi allo spirito del tempo, ai cascami dell’impressionismo riletto in Toscana coi colori e la luce, le figurazioni della macchia. Dai macchiaioli, dal maestro Fattori che l’ebbe allievo all’accademia di Belle arti fiorentina, sul finire dell’800, Puccini mutua la predilezione per le tonalità e i paesaggi, le figure di strada e la sensibilità popolare che lo porta a dipingere, en plen air, buoi e contadini dell’alta Maremma, barche, pescatori e scorci del porto. Nature morte e marine. Tutto ciò è in mostra, snocciolato in otto sezioni che ne rievocano il percorso, dagli esordi tardo ottocenteschi ai riconoscimenti dei primi del nuovo secolo.

Nel mezzo c’è la vita. I triboli che comporta, accanto alle rade soddisfazioni. L’esperienza, apatica e dolorosissima, dell’internamento manicomiale per “demenza primitiva”. Quasi cinque lunghissimi anni, dai primi del 1894 al ‘98, testimoniati da scarni documenti e minute esposte in un canto. Il ritorno alla vita, sotto tutela domestica del padre Domenico. L’impiego nella trattoria paterna come portapiatti, poi merciajo ambulante, disegnatore di ricami per merlettaje, alla morte dei suoi. Una vita misera, lontana dalle glorie sognate, dallo status che pure il relativo benessere della famiglia avrebbe consentito. Fino all’incontro con i primi estimatori e collezionisti, uno fra tutti Gustavo Sforni, gli amici rimasti coi quali s’intratteneva al caffè Bardi, quando non sostava fuori dalla sua botteguccia da merciajo o andava in giro a ritrarre contadinelle e buoi. Avrebbe potuto essere altro, Puccini, se la vita non l’avesse piagato e piegato? Chissà. Certo che anche così è abbastanza, le corna dei suoi maremmani e le carrozze sui fossi valgono più di tant’altra pittura di maniera coèva, e Livorno val bene una mostra.

Spiace solo che manchino, in questa, opere uniche nel loro genere: una per tutte quella Metallurgica con gli scaricatori di porto che da sola vale cento paesaggi campestri e marine. Sarà per un’altra antologica. Ma non se ne faccia, per carità, quel colto e inamidato damerino che pure, forse, lui stesso sognava d’essere, né tantomeno si restringa al barbuto dallo sguardo alienato ritratto nella foto del diciottenne Bruno Miniati. Lo si lasci, piuttosto, canto al muro della sua bottega, solo e silente, a rimembrare di sé e della sua arte. Fino al 19 settembre, info mostramariopuccini.comune.livorno.it.

Sopra: Piazza di luogo Pio, sede della mostra; Autoritratto, 1912, Metallurgica II, 1913 


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