In mostra nella sede della fondazione lucchese la storia di un rapporto durato quarant’anni. E le tele di un pittore e scrittore quanto mai attuale per l’amore per la libertà da ogni costrizione
È sempre un piacere pascersi d’intelligenza. Quella sobria di Carlo Ludovico Ragghianti, critico d’arte tra i più ferrati del secolo andato. È sempre un piacere gustare l’onda delle pennellate pastose di Carlo Levi, pittore e scrittore tra i più fervidi di quel tempo. È sempre un piacere rivedere Lucca, acconchigliata nella cerchia di mura rinascimentali che la protessero dalle mire di Firenze e dal Serchio. Quando nel 1812 Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone, venne sollevata a bilancino per sottrarne le preziose vesti all’acque del fiume, sulla porta che ha il suo nome sbarrata per la piena, i lucchesi mugugnavano per i guasti che la sorella dell’imperatore stava portando in città, più dell’inondazione alle porte. La principessa di Piombino e Lucca s’era messa in testa di rovesciare quest’ultima come un guanto per sventrarne la negrigna faccia medievale. Farne, insomma, una cittadina moderna, e la cosa ai lucchesi garbava così poco che si misero di traverso. Finché l’appuntamento col futuro fu cancellato dal crollo dell’impero. E buonanotte alla modernità.
È da quella porta orientale voluta dalla principessa, da quelle mura che non difendono più dalle piene e dai nemici ma restano tra le più lunghe e meglio conservate d’Europa che s’entra a Lucca. E, percorsi pochi passi, s’entra al complesso di san Micheletto, già convento delle Clarisse, tappa d’obbligo per i pellegrini della via Francigena, scampato in parte alle demolizioni bonapartiste. Da quarant’anni sede della fondazione Ragghianti e della mostra con cui si celebra, a un canto, il quarantennale della fondazione e un’amicizia altrettanto duratura tra i due Carli: Levi e Ragghianti, appunto. Se è eccessivo affermare che l’uno non sarebbe stato senza l’altro, non lo è dire che il pittore s’è completato nel critico, e viceversa. Di “un’amicizia fra pittura, politica e letteratura” – come recita il sottotitolo della mostra – lunga una vita, di lettere e carte e filmati i seicento metri quadri dello spazio espositivo (altrettanti sono a uso della biblioteca) son pieni. Ma sono soprattutto le tele di Levi a empire le sale, in un percorso che spazia dagli anni della formazione a quelli della lotta antifascista e della clandestinità, quando entrambi militarono nelle file fiorentine del Partito d’Azione, cui seguono la tappa d’obbligo del Cristo fermato a Eboli e le incursioni cinematografiche del pittore, care al critico.
Si va dunque dagli esordi, dove l’incerto tratteggio della paesaggistica cozza a contrasto col nitore della ritrattistica famigliare – la madre e la sorella e più ancora il massiccio padre a passeggio, entrambi della seconda metà degli anni Venti – ai ritratti e paesaggi del decennio successivo. Dove, spenti gli echi modiglianeschi e le spigolosità futuriste, prende corpo la pennellata ondulata e pastosa caratteristica della pittura di Levi. Sono di questi anni, coevi ai trascorsi parigini, i ritratti degli amici politici e intellettuali, come pure l’impegno militante tra le file di Giustizia e libertà dei fratelli Rosselli. Con gli azionisti, nemici dichiarati d’ogni totalitarismo di partito o di parrocchia, Levi condivide idee e confino. In quel d’Aliano, in Basilicata, che farà sfondo al suo romanzo più noto ma non all’altezza dell’Orologio, insuperato quadro dell’Italia del dopoguerra, o dell’abbozzato Paura della libertà, ancora attuale. Dall’esilio lucano, come dagli anni parigini, Levi trae nuova linfa per la sua pittura, sempre più ondivaga, pastosa e intimista, dove il ritratto d’amici – esponenti politici come del mondo del cinema – e l’autoritratto, nudi e nature morte, continuano a farla da padrone anche nella parentesi resistenziale fiorentina. Qui gli echi della guerra prendono corpo in toni cupi e rossastri, carni strazzate e sanguinolente. Ma il miglior Levi non è tanto l’artista amato e sostenuto da Ragghianti, quanto lo scrittore sfrondato d’ogni pedanteria intellettualistica. Così nel monito ai compagni del Pci, le cui contorsioni politiche sempre sarebbero sfuggite ai semplici, nell’Orologio illustrato dal suo torvo gufo. Così in Paura della libertà, che è anche paura della (vera) pittura, più che mai attuale: «Costretti a vivere, ad accettare la vita in un mondo da cui si è assenti, dunque estranei a noi stessi, avvolti dalla solitudine, nessuna passione ci è consentita se non il terrore. Il terrore fondamentale e primordiale, la paura del mondo, della vita, della libertà, dell’uomo: la Paura della pittura». Levi e Ragghianti, a cura di Paolo Bolpagni, Daniela Fonti e Antonella Lavorgna, Complesso monumentale di san Micheletto, Lucca, fino al 20 marzo 2022, info www.fondazioneragghianti.it
Sopra: Calvino, 1963
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