Come un partito di quattro gatti neri è diventato maggioranza nel Belpaese e cosa succederà adesso Andavo riascoltando, sulla via della farsa elettorale, la lunga intro – oltre 10 minuti – di Upon reflection, pietra miliare del jazz dei tardi anni Settanta, di John Surman: Edges of illusion, Margini d’illusione. Titolo appropriato al momento politico, specie la quarta traccia: Beyond a shadow, Oltre un’ombra. Attraversiamola, st’ombra.
Le elezioni di fine settembre hanno consegnato un quadro per molti tratti inedito nella lunga e tribolata storia repubblicana. Il Belpaese s’è svegliato compattamente a destra. Una novità mai vista, dai tempi delle oceaniche adunate per la proclamazione dell’impero, sotto al balcone di piazza Venezia. Dopo Forza Italia e i Cinquestelle, il consenso ottenuto dai Fratelli d’Italia rappresenta il terzo grande fermento di massa contemporaneo, di protesta e per un cambio di passo alla guida del paese. Roma all’alba del lunedì postelettorale pareva una città appesa, sospesa. Apparentemente deserta, a dispetto del dì lavorativo. Com’attendesse l’orda dei nuovi conquistatori liberatori. Quasi che gli uni non si capacitassero d’essere stati mazziati così malamente, gli altri d’aver vinto così clamorosamente. Ma che davero, parevano chiedersi muti a destra e manca, roteando tanto d’occhi? E gente insospetta a rivendicare la paternità dell’idea e del voto, altri a minacciar bagagli, temere sfracelli. Tra tutti, a far gazzarra i gazzettieri, ma è l’arte loro. E già i prezzi dei fez e dell’orbaci schizzavano su Amazon, il paese tutto si grappava ai meloni messi in mostra dalla Meloni. A dar mostra di che pasta è fatta, due bocce così, mica come certe enfantesse prodigio della sedicente sinistra che promettevano visioni orgiastiche eppoi nisba. Ma traversiamo l’ombra.
Diversamente dal solito, stavolta i sondaggi hanno colto in pieno l’esito elettorale. Un partito di quattro gatti neri, fino all’altro ieri d’un qualche rilievo soltanto romano e al più laziale, è divenuta in forza dello sdoganamento elettorale la prima forza del paese, stracciando concorrenti e oppositori. Un partito che si richiama esplicitamente alla destra fascista, e tra le sue file raccoglie nostalgici del Ventennio e neodestri, manco troppo ripuliti nel frattempo, torna al governo rinnegando i tempi che furono ma inneggiandoli, sottosotto. Di contro, una postsinistra già filosovietica eppoi antirussa, maggioritaria nei salotti televisivi e nei residuali circoli culturali dello Stivale, mantiene una salda maggioranza a Capalbio e dintorni. I Pentastellati, pur dimezzati, non sono squagliati in grazia dei fregolismi d’un ex presidente del Consiglio che li ha adottati facendone cosa sua e, orripilano salottieri e capalbisti, in forza dello scambistico reddito di cittadinanza al sud. Ma il loro peso è nullo, consensi congelati come quarti di pollo in frigo. I resti sono stracci, manco buoni a lucidare le scarpe altrui. Anche se l’inguacchio elettorale messo in piedi da Renzi e dal Pd, allora ciccia e pappa, ha permesso a molti di tradurre la trombata elettorale in copiosi seggi parlamentari. Ma torniamo nell’ombra.
Nella vulgata postelettorale la spiegazione di tanta grazia meloniana è che essa, la Melona, sarebbe stata l’unica a non accodarsi alla corte di Draghi, mantenendosi salda all’opposizione. Ergo, va da sé, se il paese tutto l’ha premiata, concedendole una bulgara maggioranza contro la più vasta ammucchiata governativa del dopoguerra, vuol dire che il competentissimo servitore del capitale globale terminale non era poi questo gran salvatore della patria, piuttosto l’affossatore. Lo sdoganarsi definitivo dei nipotini del duce, divenuti schiacciante maggioranza governativa, paventa negli sconfitti il ritorno d’un regime capace di rinverdire fasti e guasti del Ventennio. Alberga, nei cuori di tanti sinceri democratici rivestiti d’antifascismo a festa, il timore d’un regime che possa, per esempio, stroncare ogni velleità protestataria, privarsi d’ogni voce di dissenso e persino di dubbio, rinchiudere così facendo urbi e orbi in casa o mandarli in giro in maschera, e dietro pavento d’un terrore virtuale conculcare ogni libertà reale. Costringere a una guerra suicida nel nome della libertà e del logo del dollaro. Togliere lavoro e speranze, decuplicare le bollette e stracciare i consumi, ridurre un paese già eccellenza industriale al precariato generale. Ridurci, insomma, alla canna del gas, e per fortuna il gas ci è stato tagliato. Una simile dittatura sarebbe una jattura, siamai. L’ex sinistra potrebbe persino ringalluzzirsi tornando in piazza a sventolare le belle bandiere fucsia, affidarsi magari all’esercito dei paria di riserva fatti affluire a josa, per combattere l’arcinemico.
La stessa vulgata vuole che la miracolata dalle urne ora cambi le cose. La si vorrebbe, lei e la sua corte dei miracoli, salvatrice della bistrattata patria, sovrana e di popolo (en passant, l’unica formazione d’una qualche alterità politica, abortita nelle urne ancor prima di nascere). Tranquilli.
Nostra Signora dei Miracoli, o dei Meloni, ha dato da tempo a Washington tutte le raccomandazioni del caso, firmando più d’una cambiale in bianco. S’è già prostata al ghetto, come d’uopo. Ha promesso a Zelenskij ogni aiuto da parte delle italiche schiere. Neppure serviva il monito della baronessa Ursula a stare attenta, sennò una strizzata ai meloni avrebbe fatto capire a lei, a teste calde e acchiappanuvoli chi comanda, dove tira il vento di Bruxelles. Tranquilli, tutti, Anche la Melona passerà senza colpo ferire, come passa la democrazia ridotta a farsa, reificatasi in un totalitarismo effettuale, funzionale alla lotta a sangue contro l’umanità in generale, non più classi in particolare. Se ceti medi e popolari non capiranno d’essere merce a saldo sul bancone della macelleria sociale e non uniranno i propri sforzi in un progetto politico che possa, quantomeno, ritardare la loro uscita di scena dal mondo a rovescio, e preferiranno baloccarsi con destra e sinistra, buoni e brutti, il loro futuro è segnato, il bagno di sangue presente proseguirà fino alla loro estinzione. Senza Meloni o fratelli coltelli a salvarli. Senza marcescenti sinistri. Upon reflection chiude con Constellation, un richiamo alle stelle. Per ora siamo nelle stalle.
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