Si fa presto a dire Amerika. E Isis… La guerra infinita

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Divagazioni sull’attentato al Crocus, Mosca e l’Ucraina, gli Usa e l’Europa, unita nella lotta

Gran paese, l’Amerika. Enorme, ma girala da nord a sud, da est a ovest e ovunque è la stessa. Stesse città, che manco chi ci campa distingue l’una dall’altra. Stesso cibo, mica hai il fastidio della scelta. Piglia l’amerikano medio, e pure quello che medio non è. Stesse idee, non c’è niente più standardizzato al mondo, come già notava Ehrenburg. E la tecnologia, vuoi mettere. Non per niente sotto al sole della California sono in pole per la transizione alla decima rivoluzione industriale, o forma dell’ordine mercantile, per dirla come Attali: la robotica che spazzerà le precedenti e forse l’umano. E i diritti, che dire. Appena cinquant’anni fa, se un negro s’azzardava a sbagliare predellino sull’autobus finiva appeso all’albero più vicino, a dar la stura a quel capolavoro di Billie Holiday, Strange fruit. Oggi vai a dare del negro a qualcuno e finisci sulla gogna, e peggio. Niente vie di mezzo, tantomeno buon senso. Eppoi la democrazia. Negli Usa ce n’è talmente tanta che devono esportarla, a forza. E pazienza se non tutti la vogliono: la democrazia è una medicina, anche se cattiva fa bene. Guarisce da ogni altro male. Soprattutto se totalitaria, come l’attuale e globale. Ma la cosa più bella d’Amerika son le certezze. Se dicono una cosa è quella. Dice che nel fine settimana scoppia una bomba a Mosca e, oplà, la bomba scoppia. Dice che è stato l’Isis – nella sua variante pandemica k, Khorasan – e tutti a far da grancassa. Che non credi all’amerikano? Mica i persuasori, occulti e non, hanno plasmato i cervelli per niente, da decenni, di là e di qua l’oceano.

Certo, la media degli attacchi terroristici di matrice o manodopera islamica è elevata, in terra russa. Solo nell’ultimo decennio una quindicina, molti senza rivendicazione, alcuni devastanti come quelli al teatro Dubrovka, sempre a Mosca, nel 2002, e a Beslan, in Ossezia, nel 2004. Allora però c’era di mezzo la guerriglia cecena. Certo, il sedicente stato islamico ha buone ragioni per avercela coi russi, visto che se si è ridotto a pochi santuari nel nord della Siria lo devono a loro, non agli angloamericani che a chiacchiere lo bombardano e nei fatti lo proteggono. E proprio i servizi di sua maestà britannica sarebbero dietro l’attentato del 22 marzo al Crocus Hall di Krasnogorsk, alla periferia moscovita. Del resto che l’Isis, come già i talebani, siano creature dei servizi occidentali – come Hamas dei servizi di Tel Aviv – è cosa che la libera stampa d’Occidente preferisce ignorare.

Da Mosca, invece, lo dicono apertamente: il quartetto di assalitori tagiki, catturati mentre si dirigevano allo scampo alla frontiera ucraina, tutti sulla macchinina bianca presa fuori dal teatro dopo essersi liberati delle armi usate nell’attentato, è un frutto marcio della guerra asimmetrica e parallela dei servizi angloamericani, segnatamente inglesi. Del resto cosa non si farebbe per esportare un po’ di sana democrazia là dove ce n’è più bisogno? Non è un caso se già a fine febbraio la dimissionaria Victoria Nuland ha salutato la segreteria di stato dichiarando al Centro alti studi strategici di Washington che con l’ultima tranche di aiuti l’Ucraina avrebbe fatto accrescere i suoi strumenti di guerra asimmetrica, assai più efficace di quella combattuta sul terreno. Detto, fatto. La signora è buona veggente, avendo anticipato a suo tempo la fine del gasdotto Nordstream. Comunque, gli attentatori sono stati tutti catturati vivi – caso raro nella storia del terrorismo recente – e in buona salute, prima di finire nelle mani del Fsb, l’ex Kgb russo. Chissà quali altre rivelazioni faranno, oltre quelle d’essersi addestrati online e aver compiuto il massacro per pochi spicci, cinquemila dollari a testa. Un po’ pochini persino per gli standard tagiki. Ma vatti a fidare di quel che dicono i russi, meglio attenersi al copione occidentale.

Insomma, il despota Putin s’è ritrovato le bombe in casa dopo essere stato dittatorialmente rieletto per l’ennesimo mandato, con percentuali che fanno l’invidia ogni leader d’Occidente. Poco importa che la stragrande maggioranza dei russi l’avrebbe votato anche senza brogli e pressioni. L’attentato ha ricordato a tutti che la guerra è senza quartiere e il suo strapotere non serve a garantire sicurezza al paese che ha osato mettere i bastoni tra le ruote al nuovo ordine mondiale, veicolato manu militari dalla Nato. L’Occidente è unito, compatto come non mai, la Neoalleanza Atlantica brinda al trentaduesimo stato membro – mancano solo il Montenegro e la Svizzera – e si prepara a rintuzzare le perdite ucraine. Contingenti polacchi e francesi sarebbero già al fronte, dicono i rapporti russi, con la benedizione di Tusk e Macron. Due splendidi esemplari della servile tecnoburocrazia europea che al seguito degli Usa sta conducendo il vecchio mondo al baratro. Come nelle due precedenti guerre mondiali, ma stavolta non ci sarà l’Amerika a salvare l’Europa, piuttosto a spingerla nell’abisso.

Il resto del mondo, dall’India al Brasile, dalla Cina all’Iran – l’asse del male – si congratula e fa affari con la Russia di Putin che cresce come non mai, alla faccia delle sanzioni. Dall’altra parte del mondo, negli Usa, i soli che hanno da guadagnarci qualcosa dalla guerra europea in corso, due vegliardi stanno per sfidarsi in un secondo round già visto ma inedito, data l’età dei contendenti. Che la più grande potenza mondiale affidi il suo futuro a due ottantenni è un segno preclaro della sua decadenza fattuale e ideale. Dell’incapacità delle elite d’oltreoceano di rinnovare sé stesse, nella pretesa di continuare a guidare il mondo. Forse solo il vecchio meno rincitrullito tra i due potrà dare un taglio alla guerra e un freno alla storia, spezzare la catena di storpi dietro un cieco, come nel quadro di Bruegel. Ma è un augurio inattuale. L’Amerika, quella vera, non consentirà un Trump due. Prepariamoci alla spinta e al salto, mani nelle mani. Uniti per la libertà, nel migliore dei mondi possibili.


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