La madre di tutte le guerre figlia del suo (e nostro) tempo Le parole sono pietre

Agile ma esaustiva, la disamina che Antonio Moscato fa della Grande guerra per il centro studi Livio Maitan (edizioni LaCoRi, 104 pagine, 10 euro) è un buon esempio di come possa coniugarsi stampa militante e analisi storica. Il breve saggio dello storico del Movimento operaio parte da una premessa e da una conclusione nel delineare quella che definisce La madre di tutte le guerre: il primo conflitto mondiale che insanguina il vecchio mondo e le sue appendici coloniali dal 1914 al 1918.  La premessa è contenuta già nel titolo: quella che avrebbe dovuto mettere fine a tutte le guerre, come prometteva certa prosa interventista, è in realtà l’innesco di una serie di conflitti che sarebbero sfociati a breve nella Seconda guerra mondiale, dopo un’incubazione durata anni sui fronti d’Africa e di Spagna, come la prima è incubata dalle guerre balcaniche che la precedono.

Attivissima nell’uno come nell’altro caso è l’Italietta giolittiana, poi fascista, quella del parecchio che si sarebbe potuto avere sedendo di sbieco tra i contendenti, facendosi forte della propria neutralità per completare non tanto l’epopea risorgimentale con la cosiddetta quarta guerra d’indipendenza, quanto avviare un vero e proprio programma espansionistico ai danni della Sublime porta e degli imperi centrali, già alleati. Tra le parti più riuscite dell’opuscolo sono proprio le kafkiane giravolte dell’Italia per allocarsi a fianco dell’Intesa e del suo degno rappresentante posto dalla monarchia e dalla casta dominante alla guida dell’esercito alla vigilia del conflitto. Quel Luigi Cadorna figlio di Raffaele già bombardiere a Porta Pia che neppure sapeva quale fosse il nemico contro cui battersi e avrebbe pagato la propria inadeguatezza politica e militare, il tentativo di scavalcare il governo e le repressioni alla tattica suicida delle inconcludenti spallate sull’Isonzo, solo dopo la rotta di Caporetto. Quando sarebbe stato sostituito dal più accorto e conciliante Armando Diaz.

Del falso mito della vittoria mutilata (dalle mire espansioniste), così come dell’epica di Vittorio Veneto, una vittoria contro un esercito già in frantumi dall’implodere dei nazionalismi che lo tenevano assieme, Moscato tratteggia bene i fatti, restituendoli nella loro giusta luce storica, orba della retorica delle celebrazioni del centenario. Così come mette in luce le connivenze – trasversali agli schieramenti – tra sistema economico e bancario e mancata volontà di pace delle diplomazie e dei governi espressione dei rispettivi sovrani. La cui miopia politica fa il paio con l’inadeguata percezione dei comandi militari sul tipo e la durata della guerra nella quale si stavano imbarcando e che avrebbe spazzato via irreversibilmente il vecchio mondo della Belle Epoque coi suoi lustrini e i suoi allegri guerrafondai alla D’Annunzio – verso cui l’autore indulge relativamente all’impresa fiumana – gli intellettuali interventisti e i circoli futuristi. Vale la pena sottolineare che sotto questo punto di vista quella guerra ebbe una conseguenza  sul piano culturale: far cessare una volta per sempre il mito della bella guerra: non giusta, non utile, ma bella proprio, un’idea portata avanti da Troia ad allora ed esaurita appunto coi macellati in trincea.

Al riguardo, due aspetti militari vanno sottolineati, un po’ in ombra rispetto alla vulgata e anche nel testo (che non ambisce certo a essere un trattato d’arte militare). L’offensiva russa che si arenò nelle prime settimane di guerra ai Laghi Masuri, in Prussia, permettendo però alla Francia di non ripetere le esperienze del 1870 e del 1940, salvando Parigi che altrimenti sarebbe caduta assai probabilmente già nell’agosto 1914, con tutt’altro esito della guerra. Guerra che s’impantanò per l’impossibilità, oltre che l’incapacità, degli alti comandi di muovere sterminate masse umane sfruttando il loro potenziale d’attacco, prive della necessaria mobilità e senza l’ausilio delle nuove armi, quali aerei e carri armati, il cui impiego bellico sarebbe stato risolutivo nel successivo conflitto proprio alla luce del loro (mancato) utilizzo nel primo. Ma persino una mente lucida come quella di Gramsci pose l’accento sulla guerra di posizione anziché di movimento nell’elaborare la propria teoria per la conquista del potere da parte della classe operaia. Anch’egli era figlio del suo tempo.

La guerra che avrebbe potuto essere vinta dagli zar si concluse invece con la vittoria della rivoluzione bolscevica che li rovesciò – con modalità ancora in parte da scrivere relativamente al ritorno di Lenin in patria – e su questa vittoria, giustamente, Moscato punta l’indice, oltre che sull’inadeguatezza e sul doppiogiochismo delle socialdemocrazie europeee, in primis tedesca, nel voler porre un argine allo scatenarsi della guerra prima e mettere un freno ai possibili esiti rivoluzionari. Dalla guerra sbocco imperialista, più che accidente della storia, alla guerra preventiva ai conflitti civili innescati da quella rivoluzione che si sarebbe ritrovata accerchiata e isolata la lettura è coerente anche se eccessivamente determinista.

Fatto è che la madre guerra produce, tra le sue conseguenze, altri miti e falsi storici, dall’assoluta unicità di un genocidio quale la shoah, alla sospensione della democrazia anche là dov’era sbandierata, perché fosse resa digeribile alle masse; dall’inutilità degli strumenti posti in essere per contenerla, vedi la Sdn e poi l’Onu, fino all’assenza di un potere organizzato e alternativo alla logica guerrafondaia intrinseca nel capitalismo, a giudizio dell’autore. Ed è con questo, con l’auspicio di ricostruire una sinistra concretamente antimilitarista, oltre che anticapitalista, che si conclude il lavoro di Moscato (presentato stasera a Roma, via dei Latini 73, h. 19, in un’intervista pubblica coordinata dal sottoscritto). Un nuovo inizio più che una conclusione, visti i mala tempora correnti.

 


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