Bye Bye London? Le parole sono pietre

Day of destiny, il giorno del destino, titolavano stamattina all’unisono il Guardian e lo Scotsman. Ma era meglio la prima del Metro londinese: Should auld acquaintance be forgot. Un titolo che, tradotto all’italiana, suona più o meno così: la nostra vecchia storia finirà? Niente di tutto questo, assai probabilmente. E mentre persino l’immarcescibile Elisabetta II scende in campo – gli elettori sanno cosa fare, solomonizza l’attempata regina – e pure Nessie cambia casa, assieme ai Lloyds e alla Banca di Scozia – c’è chi giura d’averne vista la gobba, e l’ha pure fotografata, nelle acque inglesi del Cumbrian Lake, dopo aver lasciato la natìa Loch Ness – gli scozzesi vanno a battersi per l’indipendenza all’ultimo voto.

Fughe di mostre e di capitali a parte, appare improbabile che alle 22 di stasera (23 ora italiana), quando i seggi si chiuderanno, i sì, o meglio gli aye, alla scozzese, superino i no nella conta del referendum che vede i separatisti volerci dare un taglio con la madrematrigna Inghilterra e vincere sugli unionisti che i sondaggi danno in lieve vantaggio. Ma si sa, i sondaggi valgono quel che valgono, anche se all’inglese, e se davvero i Caledoni si separeranno dai Britanni, come già l’imperatore Adriano fece col suo muro che ancora corre poco sotto al confine con la Scozia, sarà davvero una sorpresa e forse la fine, per quell’unione di corone e di stati che regge dai primi del ‘600 e da un secolo dopo, rispettivamente. Ma che succede nella ex perfida Albione e a casa nostra, come altrove, se davvero accade? E, soprattutto, perché tanti novelli Braveheart sotto al plumbeo cielo di Scozia?

Alex Salmond, l’uomo di pocapezza che da oltre un ventennio guida le sorti dello Snp – il Partito nazionale scozzese – e primo ministro nel governo di Edimburgo, l’ha detto a chiare note: «La questione non è se la Scozia è ricca abbastanza per essere indipendente. La questione è se sarà il governo scozzese o Westminster a decidere come impiegare la nostra ricchezza». E ancora, alla faccia degli europeisti che lanciano alti peana al rinato nazionalismo scozzese e minacciano di cacciare i reprobi via dall’Europa: «Abbiamo il 60 per cento delle riserve di petrolio e di gas d’Europa. Dubito che la Ue vorrebbe fare a meno di noi». Petrolio e stato sociale, quindi. È questo che promette il 59enne di Linlithgow, nelle lowlands scozzesi, quasi a mezza via tra Edimburgo e Glasgow. Soldi dai giacimenti nelle acque, scozzesi al 90%, del mare del Nord e grazie ai quali promuovere uno stato sociale degno dei paesi scandinavi. Una dorata socialdemocrazia bagnata dall’oro nero che ha fatto a scendere in campo persino i vecchi arnesi del Partito comunista internazionale, con una verbosa articolessa sul loro sito a difesa della minacciata integrità dell’Union jack e a salvaguardia della classe operaia britannica minacciata dalle sirene socialdemo.

Fatto è che ai (per ora) sudditi scozzesi della regina madre la favola bella di Alex piace. Piace soprattutto ai giovani urbanizzati, più che agli anziani spersi nelle brughiere. I quali, si sa, sono sempre restii ai cambiamenti. È tra loro, infatti, che lo Snp spopola, facendo suoi, sulla carta, circa la metà dei quattro milioni di votanti (sui cinque di abitanti, dopo che Salmond e i suoi hanno avuto la bella pensata d’abbassare a 16 anni la soglia di voto). Piace perché condisce i soldi con un’anima verde, con l’allontanamento degli ordigni nucleari dal suolo patrio – con gran disperazione dei generaloni Nato che dovrebbero trovare un sito diverso dalla baia di Faslene per stoccare i vecchi sottomarini Trident – e senza mettere in dubbio, per ora, la fedeltà alla sterlina e alla corona. Che ambedue resterebbero intoccabili in caso di vittoria dei sì, almeno fino alla proclamazione ufficiale d’indipendenza fissata per il 24 marzo 2016. Quello sarà il giorno dell’Independence day, a 309 anni dalla firma dell’Act of union del 1707. Poi via libera, il 5 maggio, alle prime elezioni parlamentari della Scozia indipendente. Diciotto mesi necessari per delineare il futuro assetto costituzionale e rinegoziare il rapporto con il Regno Unito e le organizzazioni internazionali, Ue e Nato comprese.

È per scongiurare questo, evitare la catastrofe nella “battaglia per la Scozia”, che tutti, a Londra, dal premier conservatore David Cameron al laburista Ed Miliband, al lib-dem Nick Clegg si sono accordati all’ultimo momento su un pacchetto di riforme volte a far affluire nelle già pesanti tasche scozzesi 13 miliardi di sterline, da varare dopo le elezioni politiche attese a maggio. Un piano grazie al quale la Scozia incasserebbe più soldi e autonomie fiscali di adesso, sussidi per la casa e il lavoro sconosciuti al di sotto delle Lowlands, ma che per ora resta sulla carta. Di vero c’è che la Scozia vota in blocco Labour, e se abbandonasse i fratelli coltelli del sud al loro destino Cameron non avrebbe certo bisogno dei voti degli orfani di Blair per vivacchiare col suo Hung parliament, il Parlamento appeso, come dicono pure i valletti di Downing Street. Come finirà, s’è detto. E per Alex e i suoi sarà una vittoria, comunque vada.

Una vittoria che spianerebbe le porte – dicono gli europeisti convinti – a similari referendum in tutta Europa, a partire da quello in Catalogna negato dalle corti di Madrid. Già i leghisti affilano le armi e uno sparuto drappello ha inneggiato all’indipendenza della Scozia e a un referendum in Veneto – solo consultivo, precisa il leghistissimo sindaco di Verona Tosi – per ridare tono e corpo all’ignorato sondaggio col quale l’89% dei veneti s’è già distaccato dalla madrepatrigna Italia, ma pochi fuorché il suo promotore, Gianluca Busato da Treviso, se ne sono accorti. Occhio però a pigliare sottogamba gli emuli di William Wallace, o anche solo di Alberto da Giussano. Le piccole patrie sono l’altra medaglia d’un mondo globalizzato, una roba che tira molto più dei decotti stati nazione assai poco sovrani, nell’eterno andirivieni della storia. In linea con questa, glocal fa social, è trendy come whatsapp per i sedicenni d’ogni dove, e non solo per loro. Con buona pace dei mastri d’ascia di Bruxelles.

Ps. Come previsto, i separatisti non ce l’hanno fatta: fermi al 45%, devono rimettere nel cassetto i sogni d’indipendenza e intascare soldi e autonomie promesse a partire dal nuovo anno dal premier Cameron, che sentitamente ringrazia gli elettori, come pure Salmond. Pericolo separazione ed effetto domino scampato, almeno per ora.


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