Forse avevano ragione Chagall e Jacovitti a dipingere il mondo sossopra. Oppure è il carnevale a dare la stura a certi eventi. Altrimenti difficile risulta capire i passaggi di questi giorni sul federalismo, intrecciati alle notti di Arcore.
Ché la messa ai voti in Parlamento, a poche ore di distanza, tra due fatti di natura opposta – l’uno attinente la forma di stato in cui dovremmo convivere, l’altro le pulsioni di un anziano signore e la sua corte di miracolate – sia indegna di nota tranne che per i notisti esteri, è un fatto. Meno irrilevante, anche nel Belpaese, è il “pasticciaccio brutto” sul federalismo. Col decreto legge bocciato dalla commissione Bicamerale e riproposto in termini-lampo dal governo con la formula, cara al Ventennio, “Noi tireremo dritto”. Salvo ricevere un solenne stop dal capo dello stato data l’«irricevibilità» di un simile decreto senza l’assenso del Parlamento. Se tale procedura istituzionale delinei un “golpe”, come dichiarano alcuni esponenti dell’opposizione – in primis Di Pietro e Rosy Bindi – oppure sia più modestamente e mestamente «senza precedenti», per dirla come Fini, non è lana caprina costituzionale.
E mesto & modesto appare l’uso del pallottoliere per un tema che, oltre gli affari pubblici in privato del premier, meriterebbe un dibattito meno ossessionato dai ricatti e dalle beghe interne alla maggioranza. Salvo constatare, come ha sottolineato il presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo, che quello su cui ci si sta accapigliando «non è federalismo. Dire federalismo municipale è una bestemmia: è come dire che un pesce è un cavallo. Che c’entra questo con l’autonomia finanziaria dei comuni?». Chagall o Jacovitti, appunto. O, più semplicemente, il carnevale.
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