L’unità, o meglio la disunità d’Italia, è al centro di questo racconto fantastorico che ha per protagonisti Manlio Rosardi ed Eridanio Gasparazzo. L’uno, giovane volontario garibaldino, partecipa all’impresa dei Mille nel 1860, fino alla “liberazione” del Mezzogiorno e all’affacciarsi della nuova Italia. L’altro, anziano quadro leghista, affronta con tutt’altro scopo un viaggio alla volta della Sicilia, nel 2019. Da due piccoli borghi dell’Appennino marchigiano ed emiliano, Poggeto e Toano, le loro vicende si snodano incrociandosi a Bronte, alle falde dell’Etna. Crocevia della storia e dell’appuntamento con la ruota grande della Storia. Dove sogni e certezze cozzeranno col fato, o più semplicemente col caso, per velarsi di cenere. E proprio il destino, insieme alla verità storica, costituiscono la filigrana narrativa di questo romanzo, primo d’una trilogia dedicata al mito: al suo ruolo essenziale ed esiziale, allo stesso tempo, nelle vicende umane d’ogni tempo.
Cenere
Chi scrive ha il piacere di presentare oggi al pubblico italiano un romanzo che si potrebbe definire storico o, più propriamente, come suggerisce l’autore, fantastorico. Personalmente, non credendo né alla prima, né alla seconda categoria, sarei più propensa a presentarlo come un romanzo che, da due tempi diversi che corrono paralleli e si alternano fino alla fine del testo, uno antecedente, l’altro successivo all’oggi, ad esso si rivolge e guarda come al grande assente. Una sorta di protagonista invisibile, perché questo è il romanzo di un vuoto di memoria e forse anche di Storia, con la “s” maiuscola. Un vuoto che stride come la “ce” scheggiata di un “monumento mancato” sul molo di Marsala. Ed è su questo lembo di terra nel cuore del Mediterraneo che la vicenda ha inizio, sebbene di storie qui se ne narrino due, con la “s” minuscola.
Due percorsi che solo nella dimensione spaziale riescono a convergere. Su una terra inospitale, la lontana isola, abitata da “facce d’arabi”, che nella prima vicenda Manlio Rosardi, un volontario garibaldino, raggiunge in nome dell’Unità, come tanti altri giovani della penisola, per percorrere quel “tratto di storia patria più famoso che conosciuto”. Uno stuolo di personaggi reali si interseca al racconto del giovanissimo patriota. Bixio, Sirtori, Lanza, Tukory, Lombardo, per citarne alcuni, gli si muovono attorno come fossero vivi, come personaggi usciti più dalla penna dello scrittore che dalle carte di vecchi fascicoli o dalle consunte missive di un’epoca lontana. Un cammino penoso e lungo, che ci ricorda le “Notarelle” di Giuseppe Cesare Abba. I suoi passi si trascinano ora su un suolo rinsecchito dai raggi impietosi ora sui viottoli che sotto lapioggia paiono fiumi di melma. E i caduti, tanti. L’elenco si protrae fino al Volturno. Il fetore di sangue e putrefazione affligge lo stomaco del protagonista, ma gli spasmi del vomito si allungano, per traslazione di pathos, nell’altra storia, quella del vecchio quadro leghista, Eridanio Gasparazzo, che in Sicilia viene mandato più di un secolo e mezzo dopo con 540 megabit in un taschino e con tutt’altri oscuri intenti e ad accoglierlo è la stessa rugosa riva. La struttura narrativa è simile, interpolata da documenti, comunicati stampa, proclami, articoli e relazioni più o meno reali, dal primigenio manifesto del 1982 a un immaginario2019, quasi profetico. L’anno in cui Eridanio, da un paese dell’Emilia, a bordo della sua Hydra raggiunge la costa siciliana. Ha nel cuore la sua patria, la Padania, e negli occhi il profilo nero e aspro di una terra immotae ostile.
Ed è a Bronte, sospesa in alto sul fianco dell’Etna, che si invera l’innesto tra i due personaggi. Manlio va a sedare per ordine di Bixio una rivolta comunista di cui non comprende il senso, né lui né le altre camicie rosse che in Sicilia sono andate a combattere i realisti. Una folla di contadini, massari armati, picciotti scontenti che “tumultua e reclama: terra, terra!”. Manigoldi e assassini questi comunisti, o dei poveri cristi? Il “puzzo di chiesa e paura, rassegnazione e miseria” prende piede nei pensieri del giovane garibaldino laddove “l’immenso orizzonte della grande patria” lascia sempre più spazio. Un vuoto incolmabile. Eridanio ci capita, invece, guidato dall’istinto o dalla curiosità, in cerca delle sue origini. Tra gli “alberelli rinsecchiti che paiono grappati alla lava” e le “pistacchiere arabe che solo qui sanno crescere, tra quest’anfratti brulli”,centosessant’anni di storia sembrano annullarsi di colpo.
Da un simile scarto temporale e dalle innumerevoli comparse che popolano il testo, il linguaggio non poteva che risultare molteplice, nonché contaminato da antiche e futuribili espressioni dialettali e gergali. Eppure tutti questi linguaggi sono accomunati da una musicalità di fondo densa e vivace, spesso ricercata, che riesce a ritmare persino gli oggetti e gli attributi, li anima, li fa verbo, li fa agire e interagire, dispacci o imprecazioni, detti popolari o declamazioni ufficiali, pensieri intimi o polvere d’archivio.
E polvere avrebbe dovuto essere il titolo dell’opera, se non si fosse recato l’autore, come tempo fa mi ha rivelato, al crocevia del niente, per rendersi conto col suo stesso piede che la polvere era cenere.
Stefania Bonura