Ricordate Pacco, doppio pacco e contropaccotto, l’ultimo film di Nanni Loy dove geni della truffa napoletana ne inventano mille e una per gabbare il prossimo? Qualcosa di simile sta accadendo a Mosul, a proposito dell’omonima diga a nord della capitale del califfato d’Iraq. Talmente fatiscente da essere a rischio crollo e far ipotizzare scenari biblici, un nuovo diluvio nella piane irachene, a dire degli allarmati dossier Usa. Che hanno spinto il governo di Baghdad a chiedere un prestito alla Banca mondiale – da restituire con gli interessi – per mettere in sicurezza gli impianti. Unica a presentarsi e vincere la gara d’appalto la Trevi di Cesena, per un importo inferiore a 300 milioni di dollari. Ben distanti dai 2 miliardi dichiarati a fine 2015 dal premier Renzi a Porta a Porta, ventilando l’operazione. La modestia della commessa è dovuta al fatto che non si tratta più di debellare la minaccia di un nuovo diluvio tra il Tigri e l’Eufrate, tanto più che il bacino idrico alimentato dalle montagne del Kurdistan è piuttosto a secco, ma d’iniettare un po’ di cemento a imbellettare i pilastri e riparare una paratia difettosa.
«Non è un cantiere come gli altri, non abbiamo mai lavorato in zona di guerra. Eppure in azienda c’è chi si è offerto volontario», dichiara candidamente Stefano Trevisani, ad del gruppo Trevi. C’è da credergli. E da chiedersi, invece, quanto volontaria sia stata la partecipazione della società cesenate alla commessa. Da metà aprile sono in corso i sopralluoghi per i lavori che la settantina di tecnici realizzeranno con le maestranze locali in “condizioni non permissive”, come le menti dello stato maggiore hanno ribattezzato le operazioni in zona di guerra. A pochi chilometri c’è infatti la prima linea dell’Isis, quindi l’azienda italiana opererà sotto buona scorta di un battaglione forte di quasi 500 uomini, elicotteri da combattimento – i primi sono appena giunti a Erbil – carri armati e semoventi, senza considerare il personale di supporto, l’intelligence e i peshmerga curdi già di guardia agli impianti. Aggiunti agli oltre 800 in Iraq, fanno di quello italiano il contingente straniero più corposo tra quelli tuttora nel paese, mercenari a parte. E già nel mirino dei radicali islamici d’ogni sorta e delle milizie locali gelose della loro autonomia, oltre che dell’Isis. Costo dell’operazione, la cui durata prevista è di un anno e mezzo, almeno 50 milioni l’anno, senza considerare spese di trasporto e combattimento, stimate dieci volte tanto. Vale a dire il doppio della commessa vinta. E questo è il pacco.
Robetta, tutto sommato, ma che sul circo mediatico appare impresa degna di Noè. E poco importa che a smentire la vulgata dei nuovi costruttori dell’arca intervengano i diretti interessati. La necessità di soldati in loco sono chiacchiere e la diga è arcisicura, assicura Riad Ezziddine, direttore della struttura e frequentatore dei praticelli fronte diga nei picnic in famiglia anche durante l’occupazione della struttura da parte dello stato islamico, un paio d’anni fa. Che, del resto, non si è mai sognato di danneggiare gli impianti. Non abbiamo bisogno di truppe straniere per salvaguardare gli impianti e chi ci lavora, gli fa eco da Baghdad il ministro delle Risorse idriche Mushsin Al Shammary. Tanto più che a proteggere tecnici e operai della Trevi non saranno bersaglieri e obici, ma i contractor della britannica Pilgrims. Ecco il doppio pacco.
A proposito di contractor, va notato che la spedizione italiana è di segno opposto a quanto accade in omaggio alla logica di privatizzazione delle guerre da tempo in atto, con il disimpegno dei contingenti nazionali e i vuoti tra le file occupati da mercenari – soprattutto Usa – saliti da 250 a oltre 2.500 nell’ultimo anno nel martoriato paese arabo. Composta da mercenari statunitensi della Falcon Security è anche la guardia del corpo del presidente e del premier curdo: Masoud Barzani (anche a capo del Pdk) e suo cugino Nechirvan Barzani. Va detto che anche i soldati degli Stati Uniti sono aumentati in Iraq (come pure in Afghanistan) di oltre la metà: ora sono 3.700. Anche se assai distanti dalle presenze del 2008, con 163.591 mercenari e 165.700 regolari. Nel caso dell’Italia, invece, siamo oltre la privatizzazione dell’esercito, a libro paga di aziende private, come nel caso degli eroici marò contesi con l’India: per l’Iraq nessuno si sogna di chiedere alla Trevi una compartecipazione alle spese. Paga Pantalone, punto.
E allora, che ci vanno a fare gli italiani in Iraq? Considerato che gli Usa blaterano di riconquistare Mosul da un anno, e dei 50mila uomini che l’Iraq avrebbe dato non c’è traccia, pure gli italiani tornano utili. Per un contropaccotto che al paragone il paccobombardiere F35 impallidisce.
Recommended Posts
Shalom, saluti dal mondo nuovo
18 set 2024
Il palio di Kursk
31 ago 2024
Botte e chiacchiere da orbi
08 ago 2024