Crolli del Lungarno a parte, quel che accoglie chi giunge a Firenze da un qualche altrove è il silenzio. A dispetto della fiumana di turisti che ne ingorgano vie e piazze, dell’afa che già in primavera fatica a essere smossa da un refolo, la città resta uno dei luoghi del Belpaese dove al brusìo della normalità – il silenzio, appunto – s’accompagnano vampate di bellezza che rischiano di sopraffare il visitatore a ogni passo. E se è così ancora oggi, figurarsi cos’era la città quando, ai primissimi del ‘40, nelle prime settimane d’una guerra che per l’Italia era di là da venire, un’ebrea polacca s’affaccia sull’Arno che avrebbe visto ben altri crolli di quelli odierni al seguito dei due figli, già uomini fatti. L’avventura fiorentina di Xavier e Antonio Bueno, spagnoli in rotta da Parigi invischiata nella “drôle de guerre” inizia da lì, da quel lontano gennaio di pre-guerra, per spalancarsi sulla città attuale in tutta la sua deflagrante bellezza da Villa Bardini. E qui, prima di risalire le coste di san Giorgio spezzandosi il fiato sui tornanti del giardino, o sullo scalone monumentale del villone risistemato al gusto eclettico dall’antiquario Stefano Bardini che l’acquistò ai primi del secolo scorso, lasciandogli in eredità il nome, lasciamo la parola a Philippe Daverio, che dell’Associazione Bueno è presidente con Caterina, primogenita di Xavier.
«La caotica situazione dell’arte nell’Italia recente tenterà di porre il loro intrigante lavoro in un irresponsabile cono d’ombra. Riscoprirli sarà utile alla coscienza; servirà alla percezione di quanto fu complessa la storia delle arti nella seconda metà del secolo Ventesimo». Sia lode al critico, dunque, e al curatore della mostra Stefano Sbarbaro, e avventuriamoci nel giardino in via di risistemazione ma non orbo dell’antico fascino, sul colle di Montecuccoli. Oggi parte della fondazione parchi monumentali Bardini-Byron. Ripigliamo fiato nel loggione del belvedere innanzi alla vecchia kaffehaus, dove l’occhio casca sulla cupola del Duomo e sul torrione di palazzo Vecchio dirimpetti, prima di smagliarsi a un’incomparabile sguardo d’insieme sulla città. È, questo, uno dei luoghi dell’infinito dove faresti sera, non stancandoti mai di posarci lo sguardo. Ma proseguiamo oltre, saliamo alle stanze abitate da Pietro Annigoni che ne custodiscono l’opere, e dei fratelli Bueno fu primo estimatore e anfitrione, assieme a Giorgio de Chirico che li considerava tra i pittori più talentuosi del suo tempo. Al pari di Picasso, addirittura.
Coi dovuti distinguo di vita e fama col pictor maximus del ‘900, e alla faccia di gran parte della critica moderna per non dire attuale, che ha visto nell’opera dei Bueno la mera espressione d’un figurativismo d’anticaglia, non può non colpire, della monografica che raccoglie oltre 130 opere dei fratelli, l’intensità degli oli sulle tavole, alla moda dei grandi classici del Rinascimento – siamo a Firenze, ovvìa – come l’espressività dei grandi ritratti materici. E Doppio ritratto s’intitola, non a caso, questa mostra che fa da contrappunto a una diversa realtà tra avanguardia e figurazione, come recita ancora il sottotitolo dell’esposizione. All’avanguardia, alle mode di transito i due spagnoli che elessero la culla del Rinascimento a loro domicilio permanente, non prestarono mai troppo l’occhio. Per questo preferirono indagare i percorsi d’una figurazione che, con esiti diversi, non rifugge da fughe diversamente avanguardistiche. Un comune percorso – non sono molti, nella storia dell’arte, i fratelli artisti di pari grado – sintetizzato dall’autoritratto a quattro mani che raffigura iconicamente la bipersonale. Con Antonio in impermeabile cremisi e Xavier, il maggiore, in Borsalino e sigaretta, in icastica posa da Humphrey Bogart.
Della coppia fu lui quello più pervicacemente attaccato al figurativismo e al tempo stesso il più avanguardista, approdando a composizioni che precorrono Spoerri e una matericità pregna di sabbie e jute, mai disgiunta a una figurazione superba, ai ritratti di fanciulli dolenti e solitari, come lui si sentiva al fondo, ai nudi e fole. Meno materico, ma non meno espressivo, l’approdo di Antonio, tornato alla figurazione con una galleria di personaggi preboteriani dopo la rottura col fratello e la stagione delle pipe che ebbe un certo successo commerciale, specie negli States. Esiti diversi per una comune matrice, un percorso pittorico a quattro gambe ma personale, capace di rimescolare gli schemi del tempo e dai parametri tutt’altro che definitivi, per dirla ancora come Daverio. Doppio ritratto, Antonio e Xavier Bueno, Firenze, villa Bardini, fino al 18/9. Info www.bardinipeyron.it.
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