Tap, storia d’ulivi e d’imbrogli Belpaese

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Si chiama Tap, si legge Trans adriatic pipeline. È la tratta finale di un gasdotto di circa 4mila chilometri. Un’opera ciclopica, dal Caspio alla Puglia, ideata un lustro fa per foraggiare l’Europa, l’Italia in primis, di metano proveniente dai paesi dell’Ex Unione Sovietica posti fuori dalle grinfie di Putin, col placet di Washington. Da Baku, in Azerbaigian, a Melendugno (Lecce) passando per la Georgia, la Turchia e la Grecia. Dopo 800 e passa chilometri, un centinaio in mare, il Tap sfocerà poco distante dalla spiaggia di San Foca, in un bel campo d’ulivi secolari e, dopo un tragitto di una cinquantina di chilometri, dovrebbe connettersi al metanodotto Snam della rete nazionale del gas, presso Brindisi. Quarantacinque miliardi e rotti i costi preventivati dell’infrastruttura, talmente importante da essere considerata strategica, e perciò finanziata dalla comunità europea. Dunque, un progresso tangibile per tutti, per il paese.

Davanti a tanto bisogno, sottoscritto dagli ultimi tre governi del paese, la popolazione locale protesta coi blocchi e busca le botte, anziché plaudere all’opera che porterebbe nelle casse del comune bei milioni. La regione si mette di traverso, ricorrendo ai vari gradi della magistratura. Finché il Tar del Lazio non le dà ragione e blocca l’espianto dei primi 200 olivi (su un totale di circa 2.000) dai terreni dove sorgerà il cantiere d’arrivo, invitando le parti a riconsiderare l’utilità dell’opera e il percorso. Uno stop temporaneo – a cui il fantasmatico governo Gentiloni ribadisce l’ineluttabilità dell’impegno – che ha rinverdito le contumelie ai danni dell’Italia che dice no, sempre e comunque no. Alle grandi opere che portano occupazione e benessere, all’avanzare della civiltà, al progresso. Incancrenita nella difesa del proprio particulare, dell’orticello di casa. O, come nel caso, d’ulivi sia pure secolari.

Davanti al solito zurlare pel manico di tanti accade però che un’inchiesta – di quelle d’una volta, ormai rare – riveli sull’Espresso talune cosucce. A partire da alcune domande non di lana caprina. Ad esempio: chi ha scelto il tracciato? Perché è un consorzio privato svizzero a gestire un’opera dichiarata strategica da Bruxelles? È proprio necessario far passare 10 miliardi di metri cubi di gas tra spiagge e oliveti, anziché in zone già industrializzate come chiede, tra gli altri, la stessa regione Puglia? Ma, soprattutto, svela che a capo della società responsabile del progetto per la parte italiana, la Egl Produzione Italia, controllata dal gruppo svizzero Axpo dopo aver intascato tre milioncini tondi per dare il via ai lavori, c’era un manager in affari con le cosche. Che i pezzi grossi dell’affare sono a pié pagina dei Panama papers (per cui lo stesso settimanale ha vinto il Pulitzer) e che tra gli oligarchi azerbaigiani e georgiani coinvolti nell’affare ci sono pure magnati russi intimi di Putin, con buona pace di chi vuole tirare il bidone all’oligarca del Cremlino col nuovo gasdotto, facendo affari con galantuomini del calibro di Erdogan e Aliyev.

Un’inchiesta sul campo, mosca bianca in tempi di vere bufale – o fake news, com’è in voga dire oggi – e di pseudogiornalismo virtuale, certo non basterà a smetterla di pensare che le comunità locali si possano asfaltare in nome di opere (Tav, ponte sullo Stretto) che di grande hanno solo inutilità, danno e malaffare. Né a far rispettare le autonomie locali, anche in nome del tanto decantato federalismo, e chi lotta per non vedersi espiantare la propria vita, non solo quattro piantoni d’olivo. Ma, si sa, quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda l’ulivo.

Sotto, la rettifica chiesta a Metro, dove è stata pubblicata una sintesi dell’articolo. Nella mia opinione sulla vicenda Tap alla luce della sentenza (o decreto che dir si voglia) del Tar Lazio non c’è alcun intento diffamatorio nei confronti dell’azienda Tap e di quanti vi lavorano, che è altra rispetto a quella dell’inchiesta sull’Espresso, citata coerentemente al diritto-dovere di cronaca.

Caro Direttore,

Nell’edizione di ieri di Metro Maurizio Zuccari firma (a pagina 6) un articolo inficiato da una serie di informazioni sbagliate  (il gasdotto non compirà neanche un chilometro “allo scoperto” poiché come tutti i gasdotti, in Italia e nel mondo, sarà sepolto un paio di metri sotto il terreno), inesattezze  e omissioni (nessun tribunale, né amministrativo né penale, ha mai accolto uno solo dei numerosi ricorsi della Regione, del Comune di Melendugno e del Comitato NoTap; il decreto del presidente della III sezione del Tar Lazio ha valore fino al 19 aprile prossimo, data in cui sarà discussa la richiesta di sospensione, e fra l’altro afferma inequivocabilmente che l’opera è da considerare “definitivamente approvata”). Ma Zuccari fa anche proprie alcune domande avanzate da un articolo dell’Espresso (domande sulle quali anche Zuccari avrebbe potuto cercare qualche risposta) e soprattutto, l’inaccettabile affermazione che “a capo della società italiana interessata al progetto c’è un manager in affari con le cosche”. Una accusa gravissima non suffragata da nulla, nemmeno dal citato articolo dell’Espresso, nel quale si fa semmai un tendenzioso riferimento ad una persona che molti anni dopo aver cessato ogni rapporto con il progetto TAP sarebbe stato toccato da una indagine della Procura antimafia di Reggio Calabria. TAP ci tiene alla onorabilità dell’azienda e di tutte le persone che in essa lavorano e così come ha provveduto a querelare l’Espresso, non può esimersi dal chiederle una rettifica di quanto malamente riportato da Zuccari sul suo giornale: Michele Elia, Country manager per l’Italia di TAP, con “le cosche” non è né in affari né, nemmeno lontanamente, in relazione.

Cordialmente

Luigi Quaranta

Senior Media Advisor


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