C’è un mondo di povericristi che nel fango si scannano senza capire neppure perché, a milioni. E ce n’è un altro, dove di quel fango non giungono che schizzi, di quelle morti echi lontane, tra un sorbetto e una chiacchiera, una pennellata e uno sbadiglio. A questo mondo dorato appartenevano Jean Cocteau – benché al fronte come barelliere – e Pablo Picasso, emigrante di lusso a Parigi, quando il primo coinvolse il secondo nel progetto di Parade, nel 1915. Un “balletto realistico” in un atto o, meglio, “la più grande battaglia della guerra”, per dirla come lo stesso Cocteau. Nelle sue parole da invasato riecheggiano i conflitti tra rive gauche e rive droite della Senna, tra l’avanguardia che voleva far uscire dai caffè di Montparnasse e l’arte borghese invisa ai bohémiens, più che quelli sui campi di battaglia.
Parade, cooptati quel genio della musica sperimentale di Erik Satie e Léonide Massine, buon amico di Picasso, come scenografo, prese corpo nel Belpaese. Dopo il fiasco della prima italiana vide la luce il 18 maggio 1917 al teatro Châtelet di Parigi, nell’ambito dei Balletti russi di Sergej Djagilev, impresario teatrale e sodale del gruppo. Non fu propriamente un successo, i cannoni tedeschi tuonavano alla distanza, a Ypres il gas faceva strage dei fantaccini francesi, sull’Isonzo si consumava la carneficina della decima offensiva contro gli austriaci, inutile come le altre. In sala il magro pubblico si scazzottò davanti a un’opera surreale che pareva irridere tali tragedie.
In più, lo spettacolo pensato da Cocteau era stato talmente stravolto da risultare irriconoscibile all’autore, e se non ne morì di crepacuore come Boris Vian fu perché possedeva una tempra più forte. Ma il seme gettato allora germinò, fino a rendere lo strambo balletto di Parade un caposaldo dell’avanguardia modernista che di lì a poco sarebbe esplosa e divenuta dominante (un recente saggio edito da Onereededizioni di Carmen Petrocelli, Parade di Erik Satie, ne narra la storia). E il suo sipario, l’opera più grande dipinta da Picasso coi suoi 10 metri per 17, sopravvissuta a guerre e passamani, un’icona della nuova arte.
A un secolo da allora, benché decontestualizzato, rimirare quel telone fa ancora il suo effetto, nell’immensa sala dalle volte pittate da Pietro da Cortona, a palazzo Barberini, tra i Caravaggi e i Cagnacci e dozzine d’altri capolavori nei pressi. È lui, il telo di Parade, l’epicentro dell’esposizione aperta al Quirinale nell’ambito della mostra Picasso, tra cubismo e classicismo, 1915-2015. Dieci anni in cui l’artista andaluso – non catalano come riporta il comunicato – dà corpo a opere rimarchevoli. Tra donne grassocce e barbute, preboteriane, e paesani italiani ritratti come nativi americani, nelle sale del Quirinale e nel massiccio catalogo Skira c’è tutto per farsi un’idea dello spettacolo e del grand tour picassiano in Italia, come negli intenti dichiarati. Bozzetti e scartafacci, costumi, corrispondenze – l’esile scrittura liberty di Satie è in sé un’opera d’arte – e foto che restituiscono il sapore di anni dorati per chi ne fu protagonista privilegiato, a fronte dei massacri di un’epoca. C’è pure il video del balletto realizzato novant’anni dopo, 17 minuti di soporifera curiosità.
Soprattutto, ci sono opere minori del maestro spagnolo che più di chiunque permeò di sé l’arte del ‘900, ma rappresentative di un ciclo storico, con alcuni capolavori. Basti citare Due donne che corrono sulla spiaggia (La corsa), piccolo ma immortale dipinto del 1922 scelto come emblema della mostra. Il magnifico, ancorché incompiuto, ritratto del figlio Paulo vestito da Arlecchino, del ‘24. O I tre ballerini, grande tela dell’anno successivo dove s’affaccia il cubismo e dove i critici hanno letto tutto fuorché il senso palese – le giravolte amorose dell’artista, satireggiante – che chiude l’esposizione al piano nobile. Ma sono oltre cento le opere esposte, ce n’è per tutti e non è il solito Picasso. Fino al 21 gennaio, info www.scuderiequirinale.it.
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