Pollock e Warhol, è vera gloria? Scrissi d'arte

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Se non apparisse ingeneroso, potrebbe dirsi: la Cia li fa e Arthemisia li accoppia. Le mostre di Andy Warhol e Jackson Pollock, inaugurate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra al Vittoriano di Roma, promettevano d’essere l’evento di fine anno e, in buona parte, hanno mantenuto le premesse. Potenze iconica di due figure – e del marketing – che hanno reso la loro arte capace di permeare di sé ben oltre il Novecento. La critica s’affanna a elogiare e la gente a fare la fila per vedere le opere di due fra gli artisti più riconoscibili di sempre. Maestro d’action painting l’uno, icona pop sé stesso l’altro, capaci di smuovere in profondità le acque del proprio tempo come dell’oggi, insomma.

Che sia vera gloria la traduzione delle loro visioni in visioni collettive, in arte universalmente nota e apprezzata, è tema dibattuto da tempo. Da quando Frances Stonor Saunders pubblicò tre lustri or sono nella Guerra fredda culturale – edito in Italia da Fazi – le prove di come l’action painting di Pollock e l’astrattismo degli artisti della cosiddetta scuola di New York avessero avuto negli anni ‘50, al culmine della Guerra fredda, l’interessato supporto economico della centrale di spionaggio statunitense. In primis nella persona di Nelson Rockfeller e del Moma da lui presieduto. L’intento, palese ma celato agli stessi artisti, generalmente anti sistema, era dotare gli Usa di un’arma in più contro l’avversario sovietico e il realismo da questi propalato, minando quel (buon) senso artistico che faceva del figurativismo e del bello un valore di cui tanto Truman quanto Togliatti – per dire due personaggi agli antipodi – si dicevano paladini.

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Nella seconda metà del secolo Warhol avrebbe portato la battaglia su un terreno più avanzato. Senza interventi diretti della Cia (la rete segreta volta a sovvenzionare un’arte genuinamente “americana” venne ufficialmente chiusa nel ’67 e gli unici fondi accertati all’omonima fondazione sarebbero venuti in occasione della rivoluzione di velluto dell’‘89, funzionale alla caduta del comunismo in Cecoslovacchia e alla divisione del paese, un paio d’anni dopo la morte dell’artista di famiglia slovacca), egli contribuì a rendere l’american way of life, lo stile di vita (nord)americano, il collante visivo del vissuto collettivo nel mondo. Di più. Il nemico non è più il realismo comunista, a cui anzi i ritratti di Mao o di Lenin o la Falce e martello del ‘77 fanno il verso, ma l’arte in quanto tale. L’iconica Marilyn e la zuppa Campbell non azzerano i dettami zdanoviani in tema di estetica di classe ma il canone estetico occidentale, già minato da Duchamp. Le grandi tele spisciate durante i festini omo, valutate milioni di dollari, come le serigrafie sugli incidenti d’auto che falciano la middle class del boom, danno la stura all’orrido.

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Non è mera provocazione o avanguardia, neppure innalzamento della cultura popolare ai vertici del gusto. È minare alla base l’essenza dell’arte intesa come razionalità e bellezza, deprivandola di senso. Sostituirla all’orrore e al feticcio che avrebbe fatto tendenza. Dopo di loro, tutto è possibile. Giganti dell’arte moderna, hanno fagocitato l’arte in quanto tale, dando il là a ogni forma d’arte, fino alla negazione dell’arte tout court. Figli della chiesa del tempo, dell’ideologia dominante in Usa, hanno dato un massiccio contributo all’americanizzazione del mondo, un fatto compiuto anche se sotto botta, ancora vigente e vincente. Sono pietre miliari nel passaggio dall’homo sapiens all’homo horribilis e stupidus, per dirla come Vittorino Andreoli. All’agonia della civiltà occidentale.

Due mostre da leggere – e vedere – con questi tratti che le accomunano, dunque, ma diverse tra loro quelle organizzate da Arthemisia. Andy Warhol (fino al 3 febbraio), curata da Matteo Bellenghi, racconta le tante sfaccettature di un’icona pop, dalla musica alla moda, con una collezione di mirabilia a partire dal coinvolgente intro del flower power, coi rimandi ai favolosi anni Sessanta. Pollock (fino al 24 febbraio), a cura di Luca Beatrice, lascia più amaro in bocca. Ché superato il corridoio con il compassato swing anni ‘50 c’è una sua sola tela esposta, il grande Nr 27 del 1950 immortalato da Hans Namuth nel servizio che ne rese celebre l’action painting. Per il resto c’è una buona fetta della quadreria del Whitney che raccoglie i più quotati pittori della scuola di New York – Rothko e De Kooning, per dirne due – su cui il velo del tempo sembra essersi accanito più che su qualunque classico. Roba d’antan, più che capolavori di ogni tempo. Con una chicca che vale il prezzo del biglietto: il piccolo Untitled, datato 1947, di Lee Krasner. La moglie di Pollock che tutto accettò dell’iracondo marito, tradimenti e sbronze, pure l’indifferenza con cui il mondo dell’arte accolse i suoi capolavori, le colature che al consorte dettero la celebrità. Ma finanziare lei piuttosto che lui sarebbe stato troppo persino per i cervelloni della Cia, dati i tempi. Info www.ilvittoriano.com.


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