Ai Fori la mostra sull’eterna rivale di Roma. La storia rivista ai tempi del politicamente corretto
Chissà cosa ne avrebbe pensato Catone. Chissà cos’avrebbe detto il Censore, scotendo il capoccione. Forse l’uomo che terminava ogni suo discorso al senato declamando “delenda Carthago”, Cartagine va distrutta, avrebbe contemplato la trovata d’una mostra sull’arcinemica di Roma nel cuore della città Eterna aggrottando la fronte spaziosa sotto la rada zazzera rossastra, arricciando il nasone e strabuzzando l’occhi torvi e cilestrini, per sparire tra la folla del Colosseo. O si sarebbe piegato anche lui, come mai fece in vita, allo spirito dei tempi.
Fatto è che Carthago, il mito immortale, come recita il titolo della mostra inaugurata ai Fori, a cura d’un pool internazionale di studiosi che spaziano dal Libano alla Tunisia, desta qualche perplessità e riveste vari motivi d’interesse. Cominciamo da questi. Per chi non abbia tempo né modo di goderselo altrove, riunire ai Fori – oltre al Colosseo, nel tempio di Romolo e sulla Rampa imperiale – tutto lo scibile cartaginese è una bell’impresa. Notevole lo sforzo di rimettere assieme i cocci di quella che fu una potenza mediterranea di prima grandezza; molte le novità esposte, a partire dai rostri ripescati alle Egadi, teatro della disfatta cartaginese nella Seconda guerra punica. Sette le sezioni in mostra fino al 29 marzo (info parcocolosseo.it), riassunte nel duplice catalogo Electa edito per l’occasione: dalle origini fenicie all’espansione mediterranea, dalla vita alla ritualità, fino al cozzo con Roma e al sopravvivere d’una Cartagine romana e cristiana, al persistere del mito in età moderna e contemporanea.
E proprio la ricostruzione del Moloch di Cabiria diretto da Giovanni Pastrone nel 1914, con la sceneggiatura di Gabriele D’Annunzio, kolossal del muto e primo film a essere proiettato alla Casa Bianca, apre concettualmente e visivamente il percorso espositivo sotto le arcate del Colosseo. Un Moloch che, diciamolo subito, sta lì a testimoniare il suo contrario. La ragion d’essere della mostra, l’opportunità cioè di riscrivere la storia della città fondata da Didone nell’VIII secolo – ma piuttosto rifondata secondo altre fonti – mostrandola non come l’eterna rivale di Roma, ma in tutte le sue sfaccettature e complessità.
«Vogliamo fornire una nuova immagine di Cartagine», ha sentenziato Alfonsina Russo, direttrice del parco archeologico del Colosseo, presentando l’evento sotto l’implacabile sole capitolino, nel bel mezzo dell’anfiteatro Flavio ricolmo d’ignavi turisti. Un imperativo categorico tanto più opportuno in tempi di raid terroristici al museo tunisino del Bardo – da cui proviene parte dei reperti – e migrazioni mediterranee, in omaggio al politicamente corretto.
Ben venga dunque l’Ercole in foggia di Melqart e Baal non più divoratore d’infanti, primogeniti sacrificati sull’altare della patria; si scordi l’Annibale Barca e prima di lui suo padre, che tanto filo da torcere dette ai romani. Al punto che se ne pronunciava il nome per zittire i pupi più riottosi, a mo’ d’uomo nero reale e ante litteram. L’Annibale cui solo la malasorte e le mene dei concittadini impedirono di fare tabula rasa di Roma, e buonanotte alla città caput mundi e a ogni postuma mostra, e Roma ricambiò non dandogli requie finché fu in vita. Quell’Annibale la cui figura ancora oggi la storiografia fatica a misurare appieno, e solo la penna d’un viaggiatore-romanziere, Paolo Rumiz, ha saputo rispolverare tra le macerie della storia.
La storia mal si presta a un suo uso retrospettivo, a rischio di malefigure e cantonate buone a far da sponda allo sciocchezzaio del conformismo culturale in voga. Se proprio si voleva – si doveva – riscrivere il mito di Cartagine, meglio sarebbe stato allumarne la storia incognita. Quella dei suoi esploratori e navigatori che si spinsero ben oltre le colonne d’Ercole e le coste africane, giungendo fin sulle sponde di quella che si sarebbe detta America. Custodita negli archivi bruciati con la città fatta ardere per 17 giorni e su cui, narra la leggenda, Scipione sparse sale, a monito perenne. La storia d’Annibale, appunto, degl’italici che non si piegarono a Roma combattendo tra le sue file, ben oltre la sua fine; dei disertori romani che combatterono fino alla fine con gli ultimi resistenti cartaginesi, mentre Asdrubale calava la braghe e la moglie gli sgozzava per spregio i figli, sotto l’occhio di Scipio.
Catone, che morì alla vigilia di coronare il suo sogno, vedere distrutta la città che odiava più d’ogni altra, avrebbe certo aggrottato la spaziosa fronte, ma forse si sarebbe lasciato andare a un risolino, sperdendosi nella folla. Ché Carthago non è risorta al Colosseo.
Sopra: la presentazione della mostra e il Moloch di Cabiria (foto Nicoletta Zanella)
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