Al Museo nazionale romano i tesori dell’Arabia Saudita. Un bazar mediorientale che vale la visita.
Tutte le strade portano a Roma, recita un vecchio adagio, ma qualcuna porta in Arabia Saudita. Roads of Arabia, la mostra al Museo nazionale romano curata da Alessandra Capodiferro – curatrice anche del catalogo Electa – e da Mohammed Alahmari, conduce a Riad. Sponsorizzata dalla compagnia petrolifera del regno, la Saudi Aramco – quella delle raffinerie sforacchiate a metà settembre dai droni dati per yemeniti ma ancora senza padroni accertati, ricordate? – e con la direzione artistica della fondazione Fendi, arriva nella capitale un vero evento. Più unico che raro, diciamolo subito, per ammirare alcuni dei manufatti più interessanti rinvenuti recentemente nella penisola arabica, anche grazie a missioni italiane, sedicesima tappa di un tour che da Parigi a New York, da San Pietroburgo a Berlino, giunge appunto a Roma.
Presentata in pompa magna dalle altezze reali principi Faisal Bin Sattam Bin Abdulaziz Al Saud e Badr Nin Abdullah Bin Mohammed Bin Farhan Al Saud, rispettivamente ambasciatore in Italia e ministro della Cultura del Custode delle due sacre moschee, alias re Salman Bin Abdul Aziz, la mostra rappresenta un’occasione d’oro per «promuovere la comprensione reciproca e l’amicizia tra le nazioni», per dirla come il ministro, in tempi in cui i venti di guerra soffiano in Medio Oriente e l’immagine della petromonarchia del Golfo appare piuttosto appannata (vedi il caso Khashoggi).
Sono oltre 450 i reperti raccolti nelle grandiose sale delle ex terme di Diocleziano e – anche questo diciamolo subito – luogo migliore non poteva darsi per mettere in mostra al pubblico italiano e capitolino una collettanea di capolavori archeologici, opere d’arte e oggetti più o meno antichi. Accanto a veri tesori dell’arte arabica, come l’iconica maschera funeraria del primo secolo in oro che riecheggia la più nota maschera d’Agamennone rinvenuta da Schliemann, o i giganti d’arenaria rinvenuti ad Al Ula, è la pluralità di cippi in aramaico o altre lingue protoarabiche che caratterizzano l’esposizione e danno la stura all’ipotesi d’una comune scrittura, di matrice indoeuropea e fenicia, ai primordi dell’avventura umana. È una passeggiata di migliaia d’anni tra le plaghe d’una penisola oggi desertica ma un tempo florida e verde, crocevia di scambi con l’Oriente prima d’essere intreccio di piste carovaniere nel deserto. Dai siti d’arte rupestre di Tayma e Tarut alle oasi, dalle carovaniere tribali all’Islam, fino alla nascita del regno, è un viaggio in Arabia che val bene una visita.
A patto, però, che siate di bocca buona e – qui veniamo alle dolenti note – non vi dispiaccia ammirare opere d’arte affastellate accanto allo schioppo del nonno e al mantello del babbo, la stele in aramaico col drappo della shahada inneggiante al profeta, il portale di legno col gioiello di famiglia. Insomma, una collettanea più adatta a un bazar mediorientale che ai criteri d’una moderna esposizione. Sulla strada per Riad mancano i tappeti volanti, ma la meta val bene una visita. Fino al primo marzo, info museonazionaleromano.beniculturali.it; roadsofarabia.sa.
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