Diciamolo subito: promette quel che dà, alla fine, Il segnale dell’elefante. Alla fine, ché per il resto è una (retro)storia romana del partito che seppe contendere agli assai più numerosi socialcomunisti la palma dell’antifascismo combattente. Nonostante i contributi di Aldo Garosci e soprattutto di Giovanni De Luna, nell’ottima storia del Pd’A dal 1942 al 1947, la vicenda della mancata insurrezione del Partito d’Azione a Roma “città aperta”, come recita il lungo sottotitolo dell’opera (Marlin, 282 pagine, 16,50 euro), è questo: il riempitivo d’un buco nero che la storiografia, anche militante, e la memorialistica, specie militante, mai ha colmato.
Il saggio di Francesco Maria Fabrocile (nella foto) presentato nella bella sede trasteverina della Casa della memoria a Roma colma questa lacuna sia pure – diciamo pure questo – in modo lacunoso. Non è un problema di merito, ché il giovane ricercatore di marca postazionista si mostra anzi storico di vaglia, capace di dipanare la notevole mole documentale di fonti tutte interne – questo il punto – siano memorie o faldoni del Cominpart, la commissione per i riconoscimenti delle benemerenze partigiane. Altro limite di metodo è l’aver puntato sulla titolazione accattivante per motivi editoriali, laddove il lavoro non è tanto sulla mancata insurrezione a cui quel nome in codice avrebbe dovuto dare la stura, quanto sulla storia del partito romano, di cui quell’evento chiave è la chiusa, non svelata compiutamente ma sottintesa.
Lasciamo alle parole dello stesso Garosci, trascritte dall’autore a p. 246, il giudizio complessivo sulla vicenda: “I più conservatori dei membri del Comitato di liberazione avevano in fondo le stesse idee dei badogliani; temevano l’insurrezione per ragioni a un tempo militari e politiche, erano i soli in contatto radio con gli alleati e non portarono a conoscenza della giunta militare i dati di cui erano forniti”.
Così il segnale dell’elefante, più che per la sua elefantiaca mole, non giunse ai militanti che quella domenica del 4 giugno ‘44 aspettavano il via libera insurrezionale che aprisse agli Alleati le porte di una Roma già aperta e occupata. È che per i liberatori la libertà andava regalata, non conquistata, e l’attendersi un barrito da loro era una contraddizione in termini prima ancora che politica e militare. Quel segnale, seppur dato, forse non sarebbe giunto ai militanti in attesa anche se il dirigente in contatto coi servizi d’intelligence della V armata non fosse stato Ugo la Malfa, politico della più bell’acqua, contrarissimo a ogni ipotesi insorgente, a fronte di quadri quali Emilio Lussu e Riccardo Bauer, più propensi a un’azione militare in grande stile ancorché non meno inconcludenti, alla prova dei fatti.
Contrasti interni a parte – che avrebbero portato Lussu a prendersi a schiaffi con lo stesso La Malfa – a fare da controparte a questi era Peter Tompkins, all’epoca poco più che ventenne, introdotto in ogni ambiente della Roma del tempo, forte delle sue conoscenze massoniche, già quadro dell’Oss, poi agente Cia. Esperto d’occultismo e misteri atlantici e soprattutto profondo conoscitore d’ogni snodo del ‘900 ben oltre la liberazione di Roma, dai fatti di Dallas a Moro.
Che a Roma vi fossero cinquemila uomini in armi, come raccontano gli ex dirigenti azionisti nei loro memoriali, o anche 1.200 armati pronti a scendere in piazza, secondo i ruolini del Cominpart, sono numeri da fantaguerriglia più che reali, vista la mole di arresti del marzo-aprile ‘44 che all’indomani di via Rasella decapitarono la resistenza romana, incapace di qualunque azione dopo la mazzata delle Fosse Ardeatine. Neppure gli assai più attivi e capaci comunisti avevano tali numeri o seppero fare di più. Svolta di Salerno e propensioni monarchiche togliattiane a parte verso quel re sciaboletta che barattò l’incolumità per se e i suoi buttando a mare non il fascismo ma l’intero paese e inibendo ogni resistenza militare a Roma. Salvo giocare d’anticipo per scampare ai malfidi tedeschi, scappando sotto l’occhio dei nazisti compiacenti, per mettersi al servizio degli Alleati.
Resta una domanda senza risposta. Perché il Pd’A, il solo capace d’affrontare a viso aperto il più potente esercito europeo del tempo al pari dei resistenti jugoslavi, l’unico che con Dante Livio Bianco abbia voluto combatterli come Tito, in barba ai russi, in battaglia manovrata – impresa neppure concepibile per il resto dell’arco resistenziale, dai comunisti ai badogliani – a Roma non volle e non seppe fare altro che tirare qualche colpo all’indirizzo dei nazifascisti in fuga. Pure privi del segnale convenuto e di un’azione di comando unitaria, sparuti gruppi d’azionisti scampati alle retate e all’ignavia scesero in piazza a sparacchiare e darsi da fare, mentre i carrarmati nordamericani già rombavano sulle consolari.
Resta una vulgata. Che l’azionismo fu, per dirla come Ferruccio Parri, fiore sul letamaio, unico e solo, punta avanzata della democrazia in Italia, schiacciata tra opposte chiese e dall’incipiente guerra fredda. Esempio di ciò che il paese avrebbe potuto essere e non è stato. Troppo avanti rispetto ai tempi che chiedevano adunate di massa e intellettuali militanti più che combattenti. Un “partito di fucili” forte sul campo ma debole nelle urne, e per questo soccombente. L’esperienza romana mostra piuttosto il contrario. Tempre d’uomini allineati ai tempi, figli di un’italietta minore e alla prova dei fatti divisa e inerte, approssimativa e inetta. Irrimediabilmente mediterranea più che aleatoriamente anglofila e moderna, come voleva la maggioranza dei quadri azionisti.
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