Alla fine tsunami è stato, ma molti non se ne sono accorti. Come quei bambini a cui è stata fatta tanaliberatutti ma, infognati troppo distanti dal muro di conta, continuano a giocare a nascondino. Così, nel salotto delle anime belle, per commentatori a progetto spaesati e jene ridens a contratto, quello del 25 febbraio non è stato un terremoto politico – il più grande dal ’48, più dell’abbrivio del ventennio berlusconiano – ma una crepa nel muro appena visibile, davanti la quale fare spallucce e tirare innanzi. Fidando nel grande inciucio per arrestare la valanga grillina, o nella sua cooptazione in nome della governabilità. La parola più abusata, tra le tante dette in libertà. Allora, parafrasando il gran ciambellano, chi ha vinto le elezioni?
Ha corso il rischio di perderle, con una risicatissima vittoria di Pirro, la mesta macchina da guerra di Bersani. Eterno secondo, o meglio primo senza vincere, battuto pure nel paesello natìo, Gargamella ha passato la nottata alla camera e scampato per il rotto della cuffia al senato con un pugno di voti che lo costringerà a tentare l’abbraccio col nemico di ieri, consegnandosi al nemico di domani. O viceversa, che è quasi peggio.
Ha corso il rischio di vincerle, con uno strepitoso rush finale, il pasticciaccio della libertà di Berlusconi. Correndo quasi da solo a tutto campo ha buttato la palla in tribuna, fatto catenaccio e quant’altro per non mandare a segno l’avversario, e c’è quasi riuscito. Chi credeva d’esserselo tolto dai piedi una buona volta s’è dovuto ricredere davanti all’inossidabilità del Cavaliere, ma chi crede che tanto basti a ricompattare il centrodestra dovrà presto ricredersi.
Il grande flop, alias il grande centro di Monti, s’è smosciato come il suo mentore, mostrando di che pasta sono i sogni dei banchieri e dei tecnocrati nel giudizio degli italiani. Qualche cadavere eccellente lasciato per strada e tanta soddisfazione, nelle parole del rigor Montis, allegro e vitale come un baccalà a bagno. Prego, professore, torni a gestire qualche filiale di Standard & Poors, perché ostinarsi a vivacchiare su pochi scranni da Terzo mondo?
La pochezza umana e politica di Ingroia davanti al salottifero Vespa è la cartina di tornasole della sua dissoluzione civile e la riprova che un magistrato, per quanto onesto nel tentare di cavare gli scheletri dall’armadio del carrista Napolitano, è bene che faccia il proprio mestiere. Già autoconfinati nell’assoluta residualità, al livello del macchiettistico Oscar Giannino da operetta, ai post comunisti non resta che il destino dei panda, essere protetti. Da sé stessi.
Grillo primo partito alla camera (quindi nel paese) è un risultato che va al di là di ogni aspettativa degli stessi grillini. Non ha sbagliato quasi niente, e quel poco – vedi democrazia interna – non gli aliena le simpatie di chi vede in lui l’unico capace di fare la sola cosa ovvia e giusta: mandare a casa i ladri, tutti e indistintamente. Raschiare via il cancro di un ceto politico che ha devastato il paese. Cacciare i criminali che tolgono certezze e lavoro dando in cambio opere inutili e dannose come la Tav, o bufale folli come i cacciabombardieri F 35. Grillo è la forza antisistema, non certo antipolitica – la sua, anzi, è l’unica politica vera, il solo programma dove non siano vuote parole – l’anticorpo di cui il sistema si dota per non perire del tutto. Dopo di lui il diluvio. Se un arruffapopolo saprà essere Noè e salvare il gregge sul barcone è la grande scommessa per il paese. Per ora è Mosè che ha portato il suo popolo a traversare il deserto, alle porte del Palazzo. Ben difficilmente Mr Hide Grillo si trasformerà nel Dr Jekill, mettendo a rischio la democrazia come paventano gli affabulati dagli scivolamenti semantici, è più facile che il Palazzo risucchi i nuovi untori, cooptandoli in qualche partita di giro nel nome della plasticosa governabilità, fino a castrarne le potenzialità. Questa è la grande scommessa per l’Emmecinquesse. Intanto, allegria, il 25 è stato un grande giorno per la democrazia (quella vera) in questo paese.
Un’ultima cosa: per la prima volta in una competizione elettorale non sono esplose bombe e bombine, non hanno impazzato caroselli di jeep e manganelli. Forse è per questo che a Manganelli (in carne e distintivo) è venuto un coccolone. Un buon segnale anche questo (non il coccolone). O forse neanche lo stato (quello vero) s’è accorto dello tsunami alle porte.
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