Diciamolo subito: L’ultimo singolo di Lucio Battisti è un bel libro. E non vale per le opere letterarie quel che vale per l’arte, che a dirla bella non si fa all’opera un complimento. L’ultimo romanzo di Adriano Angelini Sut parte in sordina, finisce quasi col botto e nel malloppo di oltre 500 pagine c’è tanta roba. Pure troppa, a paragone di certa esangue narrativa contemporanea. Edito da Gaffi, il libro ha rischiato di finire nella dozzina del premio Strega e l’avrebbe meritato, persino, come un radioso futuro di vendite, se non galleggiasse in un semioscuro presente. Ma va bene così, non si scrive che per sé e per i posteri, per dirla come Camon.
Battisti Lucio, nato in quel di Poggio Bustone che l’Italietta era ancora fascista e del fascista si portò sempre le stimmate addosso – poi diremo una parola su questo – è il fil rouge della narrazione. Al punto che il profilo effigiato sull’album Emozioni compare sulla copertina del libro. Le sue canzoni, la sua vita, i sogni sognati da chi ha attraversato il suo tempo l’attraversano. E il suo tempo, le sue canzoni, dall’Apparenza alla Sposa occidentale, si fa uno e trino nel romanzo.
La musica, quella di Battisti e del tempo in cui esplose, assai meno intimista e disimpegnata di quanto volessero gli anni della contestazione globale, fa da fondale alla storia, si fa storia. La storia di Natale, figlio d’immigrati abruzzesi sbarcato nella capitale innamorato del cantautore, al punto da farsi compositore e dj e cercare nel venerato maestro una sponda, finché morte non sopraggiunge. La storia di Romano, punta avanzata del neofascismo capitolino, ottima borghesia e ideali a suo modo nobili, ma al servizio d’oscuri poteri. E la storia di Saul, esponente dell’ebraismo romano tiepido verso la sua stessa fede, gran lavoratore, il più a norma dei tre. Le loro storie s’intrecciano sullo sfondo della Roma del secondo Novecento, quella tragica e violenta, puzzona e trafficona, vitale a paragone dell’oggi ma dove la sua grande bellezza è già smarrita.
Al di là dell’intreccio biografico, è l’Urbe ex caput mundi la protagonista del romanzo. Un atto d’amore e d’odio viscerale, allo stesso tempo, come dichiarato dall’autore nei ringraziamenti, che trasuda dalla prima all’ultima pagina e offre il destro a definizioni azzeccate. Tipo: “Questa città stupenda – si legge a pagina 435 – che ti punisce per il fatto di aver osato godere della sua bellezza, sfinendoti di bassezze, trabocchetti, volgarità e ignominie quotidiano”. Sacrosanto, ma potrebbe estendersi alla realtà dell’intero paese, di cui Roma è marcia capoccia. Capitale corrotta nazione infetta, recitava un’inchiesta che ha fatto storia quando il giornalismo non era solo un cumulo di facebookerie.
La musica, la politica, l’ebraismo, Roma. Questa la tela e lo sfondo dove s’agitano i personaggi, in un romanzo corale che non accusa battute d’arresto ma scorre che è un piacere, a dispetto della mole e di qualche refuso, in una concatenazione d’eventi marcati dagli anni, dai ‘50 a ieri. Con la musica in sottofondo, s’è detto. Poi c’è un doppiofondo, quasi un sottotesto. L’intravedersi d’una realtà parallela che muove, consapevolmente o meno, i personaggi in quegli anni di trame e poteri neanche tanto oscuri che ancora modellano l’oggi. Infine una realtà ancora più oscura, indicibile. Fantasmatiche presenze nel quotidiano, affannato trantran. È qui, in questa tessitura triplice come le sue parti che L’ultimo singolo supera i precedenti e spicca il volo. Forse non si leva quanto potrebbe ma sale abbastanza, al punto da lasciar vedere la maturazione dell’autore che dopo la buona prova di Jackie sembra aver trovato una rotta da seguire. Senza curarsi troppo delle nuvole, ché dietro c’è sempre il sole, o una qualche stella che la indica. Senz’attrupparsi a bandiere losche e figuri a perdere.
Un’ultima parola su Battisti, sul suo fascismo reale o presunto. Ai tempi pochi avevano dubbi che finanziasse l’estrema destra e finanche frequentasse i campi eversivi che allignavano dalle sue parti, nell’alta Sabina. Poggio Bustone, per inciso, fu teatro d’uno dei maggiori scontri della resistenza nella dimenticata prima repubblica partigiana nata all’indomani della caduta del fascismo. Che i suoi testi, notevolmente criptici e più attenti ai travagli intimi che sociali, si prestassero alla bisogna è fuor di dubbio. Pirandello e Totò, per dire due mostri sacri, portavano la cimice fascista all’occhiello ma non erano meno geni per questo. Si adeguarono ai tempi, senza velleità resistenziali che potessero nuocere a fama e carriera. Erano fascistibili, più che fascisti. Proprio come il nostro e tanta genìa coèva.
A che pro, dunque, insistere sull’orientamento d’un genio musicale, quasi a voler cercare tardive assoluzioni ora che i tempi sono andati oltre e la fascistibilità è divenuta un marchio di qualità, al pari dell’omosessualità? Altro tema che, peraltro, nel romanzo è soavemente accennato. Meglio sarebbe stato, forse, sfrucugliare sul silenzio degli ultimi anni e la morte del cantautore che iniziò a strimpellare la chitarra in un appartamento al numero 35 di piazzale Prenestino, sull’ossessiva volontà della vedova di tenersi lontani dai riflettori, come per gran parte della vita, al punto di traslarne la salma. Ma questa è un’altra storia. Magari lo spunto per una nuova storia. Intanto godetevi questa.
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