Trent’anni fa moriva un mostro sacro del Novecento letterario italiano. Cosa resta
Il posto dove nacque era un bungalow immerso tra i colori di un giardino caraibico. Pochi anni dopo sarebbe stato spazzato via da un uragano tropicale, per essere riedificato e conservare una targa ricordo: aquì naciò Calvino, divenire un alberghetto per giornalisti e turisti. Italo Giovanni Calvino Mameli nacque lì, in quella casona in mezzo ai fiori che oggi si direbbe loft, nel bel mezzo dell’orto botanico di Santiago de Las Vegas. Sulla destra della Calle primera per chi viene dall’Avana, a pochi chilometri dall’aeroporto internazionale. Quell’uragano costrinse i suoi genitori, Eva e Mario, a tornarsene nell’Italia già preda del fascismo, a San Remo, dove avrebbe avuto inizio l’avventura di uno scrittore che permeò di sé il novecento letterario non solo italiano. Uno tra i primi e i pochi a essere tradotti al mondo, dopo Collodi e Moravia. Più che un classico, un arciclassico.
Il posto dove morì è una villa nel verde di Roccamare, tra la pineta e il mare toscano che al tramonto si accendeva dei colori del vino. Durante le vacanze lo sorprese un ictus, alla vigilia di un viaggio negli States dove avrebbe dovuto tenere un ciclo di conferenze, ad Harvard, che sarebbero passate alla storia come Lezioni americane, l’ultima delle quali incompiuta. Sorta di testamento spirituale e letterario sui valori esistenziali e letterari che s’intravedevano di là dallo scorcio di Novecento sul secondo millennio che non fece in tempo a vivere. Nell’ordine: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Regole tuttora prese a modello del mestiere di scrivere contemporaneo. Una lapide di mero cemento lo ricorda nel cimitero di Castiglione della Pescaia, dov’è sepolto: un nome in stampatello, due luoghi punto di partenza e d’arrivo di un vissuto, e due date: 15 ottobre 1923, 19 settembre 1985. Trent’anni fa.
In mezzo a questi due giorni, poco più di sessant’anni dove Calvino passa come uno spartiacque, eclettico e profetico al pari di altri mostri sacri della narrativa coèva. Non profetizza come Pasolini la fine d’una civiltà, ma in qualche modo ne dà la misura del divenire. Non è come Moravia il dominus dei salotti letterari, ma in certa misura ne supera il limes contaminando altri mondi. La politica, anzitutto, tra le file del Pci lasciato dopo i fatti d’Ungheria, con una gustosa novella polemica su Togliatti. La gran bonaccia delle Antille, che provoca una piccata risposta sulle pagine di Rinascita da parte del segretario del Migliore, quel Maurizio Ferrara padre di Giuliano. Calvino inizia, diciassettenne, come vignettista – a firma Jago – sul Candido dove i suoi disegni piacquero a un burbero Guareschi. I primi scritti, siglati I. C., sono sul Giornale di Genova: recensioni di film nelle sale non ancora oscurate alla vigilia del II conflitto, quali il San Giovanni decollato con un memorabile Totò. Da quei pezzi acerbi ma già di ampio respiro e le prime prove letterarie passa la guerra mondiale, con il precoce impegno nella Resistenza ligure, e l’impiego alla Einaudi, dove giungono le amicizie che contano, Vittorini e Pavese in primis.
È quella la stagione neorealista di Calvino, affrontata con un primo romanzo resistenziale di formazione, Il sentiero dei nidi di ragno, e i racconti di Ultimo viene il corvo. Negli anni ‘50 giunge il trittico dei Nostri antenati, favole permeate dal realismo magico che dal Sudamerica avrebbe fatto scuola: Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente. Il periodo fantastico sfocia nel fantascientifico che permea di sé gli anni della maturità, fino alle opere combinatorie e a quelle, più tarde, che preconizzano la modernità e chiedono alla parola scritta di farsi rigore, barriera contro l’ovvio e il disincanto. Contro l’abitudine al male, anche di vivere, come sermonizza un celebre passo delle Città invisibili (opera che di suo darà la stura a infinite connessioni con l’arte e l’architettura): «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
All’epoca di questo scritto Calvino vive da anni a Parigi, dove si è trasferito dall’estate del 1967 con la moglie sposata a Cuba, la traduttrice argentina-parigina Esther Judith Singer, detta “Chichita”, con cui avrà l’unica figlia Giovanna. E lì scrive quell’epitaffio al Che, assassinato quell’anno in Bolivia, che resterà a lungo ignorato in Italia. Torna nel Belpaese un pugno d’anni prima di morire, mette su casa e famiglia a Roma, a due passi dal Pantheon, dove la moglie vive tuttora, alternandosi con la villa in Toscana. E dove l’ictus lo coglie, non prima d’avere il tempo di prestare la firma ai maggiori quotidiani, e d’abbandonare la storica casa editrice torinese per la Bompiani, con cui pubblica i suoi lavori ultimi e postumi. Ma senza ricevere l’onore dello Strega (per lui, solo un premio letterario ideato dai suoi amici post morte). E dove riposa, nel dimenticatoio riservato ai morti, dopo essere stato canonizzato in vita. Di suo restano opere tanto distanti da apparire moderne, venate da una ricerca della verità e da una razionalità inattuali, e aforismi pungenti. Come uno tra gli ultimi, affidato alla penna caustica d’uno dei suoi personaggi, Palomar: “Il rifiuto di comprendere è forse il solo modo possibile di dimostrare rispetto”.
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