E due. Dopo lo Strega, l’Einaudi si pappa anche il Campiello che non sposta equilibri editoriali, né muove la classifica dei libri venduti, ma pure lui ha il suo perché, anzi parecchi. A vincerlo per la casa editrice torinese è Donatella Di Pietrantonio con un romanzo che può dirsi di formazione, L’Arminuta. Dove una ragazzina, Adalgisa, è costretta a ripartire da zero tra ristrettezze economiche, fratelli invadenti, sorelle complici e amori precoci. Dentista pediatra nata nel 1963 ad Arsita, nel teramano, Di Pietrantonio dedica la vittoria al suo Abruzzo: «La mia regione che viene fuori da un anno orribile, ha subito terremoti, valanghe e incendi. Infine voglio dedicarlo a tutte le arminute e gli arminuti, le persone che hanno vissuto nella loro vita e sulla propria pelle l’esperienza dell’abbandono».
Aggiudicati da Andrea Zancanaro, 21enne di Feltre (Belluno), il premio Campiello giovani (alla 22esima edizione) con il racconto Ognuno ha il suo mostro, e da Francesca Manfredi, al debutto con Un posto dove stare (La nave di Teseo), la sezione opera prima, mentre a Rosetta Loy va il premio alla carriera, sancito per la terza volta dopo Vassalli e Camon.
Non ha un parterre come il ninfeo romano di Villa Giulia, ma l’altrettanto mondano teatro La Fenice, a Venezia, e uno sponsor alcolico meno elitario dello Strega, il Prosecco, ma non è senza ragioni se il Campiello è il solo evento letterario ad avere, con lo Strega, dignità televisiva. Quest’anno, anzi, tra le novità c’è una docufiction prodotta con Rai5 che sarà trasmessa dal canale Rai nei giorni successivi alla cerimonia finale, condotta stavolta da Enrico Bertolino e Natasha Stefanenko, dopo il forfait di Mia Ceran.
Altra novità dell’edizione 2017 la comparsata a Montecarlo, il 22 settembre, per perorare la causa del vincitore e del made in Italy. Così, con mondanità misurata e sapor d’accademia, l’attenzione al marketing e alla necessità di fare d’una faccenda letteraria un evento c’è anche nel premio nato nel ‘62 per volontà della famiglia Valeri Manera e impulso degli industriali veneti. E non è un caso se Matteo Zoppas, presidente della fondazione Campiello e della Confindustria Veneto, sottolinea a oltre mezzo secolo di distanza dall’esordio «il dialogo tra impresa e cultura» di cui il premio è stato «un lungimirante precursore e continua a essere l’ambasciatore» in tempi di tracollo del comparto manifatturiero italiano o, per dirla alla moda, dell’“industria 4.0”.
Il dialogo tra lettere e impresa, la cultura vista non come ciliegina promozionale sulla torta del mercato ma dialogo creativo e vitale per generazioni d’industriali è certamente una delle peculiarità del Campiello. L’altra discende dal regolamento: una giuria composta da una dozzina di letterati, presieduta stavolta da Ottavia Piccolo, seleziona i cinque finalisti, da sottoporre al voto di 300 lettori di diverso status ma comunque “forti”.
Per sua natura, dunque, il premio è meno attento al potere e agli equilibri tra case editrici (anche se due libri in cinquina sono stati dell’Einaudi) e più alla parola scritta, potendosi permettere qualche divagazione in campo letterario. Non solo risulta difficile che dal premio emerga un brutto libro, insomma, ma può persino capitare che salti fuori un’opera destinata a dire la sua oltre l’oggi, fuori dalle mode del momento anche se strizza l’occhio a contaminazioni e tendenze.
I finalisti di questa 55esima edizione ne sono un po’ lo specchio. C’è la vena autobiografica e biografica della pars maschile e il femminino dirompente, intimo e fuori dalle regole, della maggioranza femminile che compone la cinquina, né manca l’attenzione a un uso meno convenzionale della parola scritta. Vedi Stefano Massini (Firenze, 1975), buon secondo con Qualcosa sui Lehman (Mondadori) che gioca la carta del metaromanzo-ballata di ben 800 pagine, con una scrittura in similversi dove c’è spazio per tutto, persino per le vignette a fumetti. La storia racconta le vicende dell’omonima famiglia ebrea tedesca, immigrata alla metà dell’‘800 negli Usa per dare vita al colosso finanziario tracollato nel 2008 che ha dato la stura al collasso economico dell’intero Occidente. Dal libro è già stato tratto uno spettacolo teatrale, Lehman trilogy, tradotto in 15 lingue, con la regia italiana di Luca Ronconi e del premio Oscar Sam Mendes al Royal National di Londra. Del resto Massimi, già responsabile artistico del Piccolo di Milano e pluripremiato dalla critica europea, è tra i pochi autori italiani ben rappresentati sui palcoscenici mondiali. Il che faceva di lui il favorito vincente, grazie anche all’essere supportato da un colosso come Mondadori, quest’anno a bocca asciutta.
Di minori pretese la duplice autobiografia, di sé e paterna, con cui Mauro Covacich (Trieste, 1965) s’è aggiudicato il terzo posto raccontando la sua città attraverso gli occhi di due bambini, suoi e del padre, in La città interiore (La nave di Teseo). Un altro romanzo di formazione focalizzato su due momenti chiave della storia collettiva e del proprio vissuto: la parentesi titoista al termine della Seconda guerra mondiale e l’attentato antiebraico di Settembre nero dell’agosto di 45 anni fa.
Tutte al femminile e sopra le righe le protagoniste delle altre tre concorrenti. Della Di Pietrantonio s’è detto. Anche La ragazza selvaggia di Laura Pugno (Roma, 1970), presentato da Marsilio, vede intrecciarsi nella vita della protagonista le vicende di una famiglia nei guai – la madre alienata, la sorella vegetativa – e altre figure non meno problematiche, in un dramma familistico ed esistenziale. L’eroina di Alessandra Sarchi (Reggio Emilia, 1971), infine, in La notte ha la mia voce – ancora Einaudi – è una disabile che dall’incontro con un’altra portatrice di handicap, la Donnagatto, rivede la propria concezione di vita e coglie nella sua condizione una sfida all’imperfezione del mondo. Donne in fuga, dunque, figure a misura dei gusti di lettori (lettrici), nello spirito dei tempi dove la ribellione è fuga dall’oggi, più che costruzione di un domani improbabile.
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