Cent’anni di Bauhaus Scrissi d'arte

 

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È durata solo 14 anni, ma ha segnato in modo duraturo il suo tempo e il nostro. Nata cent’anni fa, in un tempo foriero di novità strozzate in culla, la Bauhaus è sopravvissuta ai primordi d’una Repubblica troppo fragile per resistere al Reich. Ed è rinata dopo aver lasciato il paese che la vista sorgere, la Germania di Weimar, quando su di essa s’è allungata l’ombra del nazismo, radicandosi ovunque. Era il 12 aprile 1919 quando Walter Gropius firmava il contratto da direttore della scuola d’arti applicate del Bauhaus a Weimar. Dando vita, quello stesso mese, al manifesto-programma che dalla capitale dell’omonima repubblica, l’antica Vimaria della Turingia, avrebbe dato il là a una delle correnti artistiche e architettoniche più importanti della modernità. L’idea del giovane architetto, appena 26enne, è quella di rifarsi ai bauhütten medievali, i cantieri dove ai mastri muratori s’affiancavano i garzoni manovali. Arte antica e tecnica moderna: razionalizzare la tradizione artigiana con le nuove tecniche della produzione di massa. E niente più distinguo, l’arte doveva espandersi in ogni campo.

Un’idea che, artisticamente, affondava le radici nell’art nouveau affermatasi in Europa nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Dare forma non solo all’opera d’arte totale, ma uniformare la vita stessa dell’uomo all’arte nella sua totalità. Tutto, dalla moda al design, dall’abitazione agli oggetti d’uso quotidiano, oltre ovviamente alla produzione artistica, doveva trasformare l’uomo nuovo passando dall’ambiente giornaliero. Dalla casa e i suoi mobili, anzitutto. Forme razionali e funzionali, spazi dove vetro e cemento si fondevano in un razionalismo dalle forme geometriche rigorose, aperti alla luce e al mondo. Con ambienti funzionali e interni visibili all’esterno, dialoganti con esso. La casa doveva essere di vetro, come la democrazia, si diceva.

Idee ardite, all’avanguardia come l’arte del tempo, che un nugolo di geniali professionisti, ognuno con le sue problematicità e peculiarità, instillarono in generazioni di modisti, designer e architetti. Oltre a Gropius Mies van der Rohe, Paul Klee, Wassily Kandinsky, Marcel Breuer, Anni Albers, Oskar Schlemmer, László Moholy Nagy, Theo van Doesburg, solo per citarne alcuni. Più uomini che donne, in verità, anche se i corsi al Bauhaus erano pensati per tutti, indistintamente. Ma le differenze di genere erano ancora quasi insormontabili nella Germania degli anni Venti, percorsa dalle insurrezioni spartachiste e dai corpi franchi, e lo sarebbero state a lungo anche nel resto del mondo. Idee troppo ardite, comunque, per piacere a chi denunciava le avanguardie artistiche come arte degenerata, e al razionalismo preferiva arti esoteriche e di regime.

Così l’aria al Bauhaus di Weimar divenne presto irrespirabile. Prima a Dessau, non distante dalla Wittemberg dove Lutero affisse le sue tesi, alla metà degli anni Venti, poi a Berlino, fino al ‘33, le nuove idee misero piede e corpo in strutture oggi dichiarate patrimonio dell’umanità, finché l’ascesa al potere di Hitler convinse Gropius e compagni a cambiare aria, per tempo. Dando luogo a quella diaspora che da Londra a Calcutta, da New York a Tel Aviv, avrebbe germogliato e dato frutti durevoli alla scienza dell’abitare e al gusto mondiale. Di tutto questo l’anno del centenario vede un pullulare d’eventi, soprattutto nella patria d’origine. Da Berlino a Londra, da Rotterdam a San Paolo del Brasile, sono dozzine le mostre del centenario da non perdere – il calendario è su www.bauhaus100.de – con un paio di chicche: i due nuovi musei del Bauhaus, uno appena inaugurato a Weimar (bauhausmuseumweimar.de) e l’altro che aprirà i battenti a ottobre a Dessau (bauhaus-dessau.de). E in Italia? Niente, a parte un paio di convegni del Maxxi, tenuti a marzo. Ma, si sa, il nostro è paese di ben altri (ir)razionalismi.


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