Alessandro Di Battista (s) e Luigi Di Maio alla Camera durante l'esame del DL su adempimento obblighi verso Unione Europea, Roma, 11 Giugno 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI Belpaese
Beppe Grillo. Sopra: Di Battista e Di Maio

Beppe Grillo. Sopra: Di Battista e Di Maio

Hanno avuto l’occhio fino gli imprenditori che, nel maggio napoletano di un anno fa, gli hanno affibbiato la pecetta di politico dell’anno. Ora che Luigi Di Maio è ufficialmente al centro della pentastella del M5S, Beppe Grillo potrà – chissà – lasciare a lui e ad altri stellone e timone della nave corsara messa in mare nel 2009. Il sondaggio dei cinquestelle che ha spodestato l’ex capocomico genovese dall’essere nomen omen del movimento, relegandolo in terza posizione, dietro ai bei volti del napoletano Di Maio e del romano Di Battista, parla chiaro.

Per i grillini il volto nuovo che li porterà fuori dalle secche della protesta fine a sé stessa e alla conquista del palazzo d’inverno è quello, impomatato e compassato, del vicepresidente della Camera. L’opposto del capo, vulcanico e sbraitante, per non dire dell’altro socio fondatore, capelluto e canuto. È presto per dire se la coppia Di Maio-Di Battista – i due già scootereggiano insieme nel centro di Roma, per la gioia dei fan – possa o voglia spodestare il duopolio della premiata ditta Grillo & Casaleggio, ma il dado è tratto, avrebbe detto un tal Cesare.

Il sondaggio interno conforta e rafforza la volontà dei fondatori d’uscire dal cono di luce per offrire ai cavalli di razza del movimento (Di&Di, appunto), l’opportunità di correre – non certo a briglia sciolta – in vista del gran balzo alle prossime politiche. La decisione di Grillo d’abbassare la soglia della propria visibilità mediatica, costituire un direttorio e togliere il nome dal logo del M5S, pur mantenendo proprietà e presidenza, è funzionale alla crescita di una nuova leadership, nella logica del padre che dà al figlio le chiavi della macchina nuova e prega che non gliela sfasci sul primo paracarri.

Nell’arco di cinque anni, che per un movimento politico possono essere un’inezia come un’eternità, i pentastellati hanno avuto la forza di alloggiarsi in parlamento con un pattuglione di 150 tra deputati e senatori, al saldo degli espulsi. I sondaggi lo danno oltre il 27%, un pelo sotto al Pd. A Roma e Napoli potrebbe vincere proprio grazie al duo Di&Di che si guarda bene dal candidare – accampando inderogabili regole – per non azzoppare i cavalli vincenti prima della gara vera, alle politiche del 2018. A Roma come altrove, la paura di cadere è più forte della voglia di volare, ma il M5S muta pelle e può sopravvivere al padre anche se lo divorerà.

Ma non si tratta tanto di scalzare la coppia Beppe & Gianroberto, il guru e l’eminenza, dall’essere figure guida e chiave dell’ennesimo miracolo politico italiano, cosa che nessuno dei 5S si sogna manco alla lontana, quanto di passare attraverso prove che al paragone la cruna dell’ago è per il cammello una passeggiata di salute. Passaggi dove ai nuovi leader non basterà reificare la controdemocrazia tematizzata da Pierre Ronsevallon, cioè fungere da guardiani della democrazia insufflandole dosi massicce di clic perché risorga dalle sue finzioni, ma sarà necessario strutturarsi in una qualche forma partito e radicarsi sul territorio come forza di (buon)governo e non di mera opposizione.

Un compito e un destino – la costruzione delle elite e il passaggio dalla contestazione alla gestione della cosa pubblica – contro cui sono naufragati progetti storici di ben altro spessore ideologico, nel Belpaese. En passant, i pentastelle dovranno mostrare che non sono gli acchiappanuvole incompetenti di cui ciancia chi il paese l’ha affossato davvero e alza steccati bipartisan per tema d’essere scalzato dal nuovo che avanza. E dovranno dimostrare nei fatti che non sono i qualunquisti parafascisti di cui cianciano tante teste fine tra le macerie della sinistra e nei salotti buoni. Ben sapendo che alla bisogna tutti faranno muro, e non basterà loro la maggioranza dei voti o l’essere puri e duri per risuolare lo Stivale.


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