Reportage dall’isola del socialismo alla vigilia del voto all’assemblea nazionale, tra il blocco rafforzato da Bush e l’attesa della fine di Castro
«Né le piogge né i venti dei cicloni Isidore e Lily – ultimi ad abbattersi nell’isola – hanno ridotto l’abituale massiccia affluenza alle urne». Con questa corrispondenza il Granma, organo del partito comunista cubano, ha dato notizia della conclusione della prima fase delle elezioni generali che porteranno, nel gennaio 2003, al rinnovo dei 601 membri dell’Asamblea nacional del poder popular, nessun oppositore al Pcc, e alla nomina del Consejo de estado, massimi organi della repubblica di Cuba. L’elezione di poco meno di 15mila delegati alle 169 assemblee municipali, a metà novembre, ha fatto registrare un’affluenza davvero massiccia: alle urne si sono presentati quasi il 96% degli elettori (maggiori di 16 anni), il 90% dei quali ha votato i candidati proposti dalle commissioni elettorali. Circa la metà di questi costituiranno i membri del Parlamento e delle 14 assemblee provinciali che si rinnoveranno dal 1998. Il resto sarà designato da una commissione nazionale integrata dai rappresentanti delle organizzazioni economiche, capeggiate dalla Ctc, la Central de trabajadores de Cuba.
Non sembrano verificarsi, date queste premesse, le “condizioni minime” poste da George Bush in previsione della VI legislatura dalla presa del potere di Fidel Castro. Ammissione dei candidati dell’opposizione, par condicio nelle trasmissioni elettorali, osservatori stranieri per monitorare l’intero processo. E, ovviamente, riforme economiche all’insegna del libero mercato. Questo quanto chiesto dal presidente degli Stati Uniti alla convention degli oppositori al regime castrista, a Miami, paradossalmente nel giorno dell’indipendenza dall’amministrazione Usa, per garantire elezioni “finalmente libere” dal 1959 ed alleggerire il quarantennale embargo contro l’isola. Abbandonata da tempo la carta del rovesciamento manu militari del regime castrista, vanificato dalla capacità di resistenza del popolo cubano il “bloqueo norteamericano”, all’Impero non resta che la carta delle opposizioni parlamentari, finanziate con migliaia di milioni di dollari sottobanco, aspettando la morte naturale del “lider maximo” – non essendo andati in porto i tanti attentati – per vedere la fine del socialismo caraibico e accogliere l’isola di nuovo nella grande famiglia dei buoni vicini.
Fidel, padre padrone
Ma Fidel, padre padrone di un sistema che resiste tra le miserie e il disincanto, non sembra preoccuparsi più di tanto. Nonostante l’età e la salute non siano dalla sua, continua ad assommare le cariche di primo segretario del comitato centrale e presidente del Consiglio di stato e dei ministri – vale a dire i vertici del partito e dello stato – con suo fratello Raul secondo segretario e vice, nonché ministro della Far, la Fuerzas armada revolucionaria. Un’idea dello stato delle cose il vecchio combattente l’ha data nel giorno del suo 77 compleanno, lo scorso 13 agosto, una delle sue ultime uscite pubbliche. All’inaugurazione delle oltre 800 scuole del paese danneggiate dai tifoni del 2000 e ristrutturate a tempo di record dalle microbrigate di lavoratori volontari, Fidel ha dichiarato ai 250mila alunni e 4.000 neodocenti che hanno partecipato ai lavori assieme a gente comune, casalinghe e pensionati: «Gracias por todos. Battaglia dopo battaglia affronteremo pericoli e vinceremo ostacoli. Viva el socialismo! Patria o muerte!». Zoppicante e visibilmente sofferente, sudatissimo nella divisa verde ramarro nonostante l’aria condizionata sparata come ovunque a mille nel cineteatro Astral della capitale, Fidel parla e respira a fatica ma raccoglie sempre più ovazioni e consensi tipici del culto della personalità nel socialismo realizzato. Anche slogan ed evviva, da quarant’anni gli stessi, sembrano scivolare addosso a questa icona della rivoluzione che ha divorato molti dei suoi artefici e sta annichilendo gran parte dei suoi figli. Eppure pochissime sono le voci di dissenso reale nei suoi confronti anche se, come dice chiunque nell’isola, “Aquì todos son fidelistas e nadje comunistas”. Tutti, o quasi, stanno con Fidel ma nessuno, o quasi, col suo regime. Ennesimo paradosso di una realtà che ne ha da vendere. Prodotto, forse, dalla reale mancanza di alternativa tra un futuro senza “el jefe” e il ritorno al passato, puro e semplice.
Nessuno, tra i sopravvissuti alle piroette della rivoluzione, alle stroncature del capo come ai colpi dei nemici, potrà occuparne il posto e proseguirne l’opera. Nemmeno il fratello Raul, da tutti indicato come ovvio successore ma privo del necessario carisma, o gli emergenti Felipe Perez Loca o Carlos Valeruaga, suo giovane segretario e plausibile delfino. E gli uomini che oggi gli siedono accanto e lo ossequiano, l’incolore Ricardo Alarçon, presidente dell’Assemblea nazionale, il capelluto ministro della Cultura Abel Prieto o il massiccio Esteban Lazo, segretario della Ctc, la centrale sindacale, saranno domani come pupi di pezza ai quali il gran burattinaio ha spezzato i fili. E Cuba, oltre 11milioni di anime che votano massicciamente per il regime ma se potessero seguirebbero il milione di concittadini scappati all’estero, si ritroverà in casa quel capitalismo che tanto condanna e tanto brama, priva però degli anticorpi necessari per conviverci. Così, in attesa di quel che accadrà la gente guarda alla finestra come la donna della pellicola “Parla con lei”, di Pedro Almodovar, scena sforbiciata dalla censura nei cine dell’Avana. E s’arrangia come può, per toccare con mano quei mille dollari scarsi che le statistiche gli mettono in tasca come reddito medio annuo. Sospesa tra il Terzo mondo e la Napoli del ‘43, a dieci anni dall’inizio del periodo speciale che l’ha messa in ginocchio ma non piegata.
Tra Napoli e il Terzo mondo
La sintesi, felice, è di Eusebio Leal, numero uno della “Oficina del historiador” della capitale. A metà tra compagnia pubblica e impresa privata, questa rappresenta un prodotto tipico del “periodo especial”, impegnata a risistemare le zone caratteristiche della città, la Habana vjeia e il Malecon, la città vecchia e il lungomare, stupende e fatiscenti. Un’impresa immane avviata a spizzichi e bocconi già dalla fine degli anni ‘60 ma intrapresa sistematicamente solo a partire dal ‘93. Quando la megasocietà – 10mila tra quadri e operai – è stata dotata di personalità giuridica per raccogliere in proprio i fondi necessari a rifare ex novo, praticamente, uno dei centri storici dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità, abbandonato a sé stesso da decenni dopo la fuga della ricca borghesia che l’abitava e l’occupazione dei senza tetto. Ora quelli che agli occhi del turista sono alveari di straccioni – anche 20, 25 persone in un “cuarto”, un appartamentino – tornano pittoresche case coloniali riaffittate agli ex inquilini ad un decimo del loro salario, qualunque sia, assumono al rango di sedi di rappresentanza o locali turistici dati in gestione. Una fatica di Sisifo per la quale l’“officina” ha speso, solo nell’ultimo anno, 14 milioni di dollari, uno e mezzo dei quali giunto dalla comunità internazionale, anche da privati, Italia in prima fila. Niente dalle casse dello stato.
«Siamo ad un buon terzo dell’opera – afferma Leal – ma nessuno sa quando si terminerà. Viviamo nell’emergenza permanente, abitativa ed economica. Occorre considerare poi il nostro approccio al problema che non è commerciale, ma culturale e sociale. Per questo ci occorre denaro e ancora denaro, e una forza morale enorme». Oltre settantamila sfollati affollano le case prefabbricate dell’Ohc o gli appartamenti collettivi dei formicai suburbani, in attesa di fare ritorno nelle case rimesse a nuovo. Un privilegio che, per forza di cose, toccherà solo ad un terzo di essi. Un giro per calle Obispo, per i vicoli della piazza vecchia o alle spalle della cattedrale che raccoglieva le spoglie di Colombo dà un’idea dello sforzo, immenso. Rafael Rojas e Oreste del Castillo, gli architetti responsabili del patrimonio e del “plan maestro” di ristrutturazione, s’affannano a dimostrare efficienza e laboriosità tra scassi di basolato e cancellate pittate. E l’opera prosegue, con molta improvvisazione e tanta buona volontà. Napoli 1943, Tercero mundo. Non solo espressioni semantiche, rintracciabili nelle bettole che promettono “pissa” a pochi dollari o nei bohìos – le casupole dai tetti di foglie di palma – dei villaggi rurali dell’interno, ben fuori dai circuiti turistici. Tutta l’isola scorre tra questi due estremi, e solo l’abitudine a fare a meno persino dell’essenziale, la resistenza e l’orgoglio che rappresentano i segni più veri della “cubanidad”, ha permesso ai cubani di uscire dal tunnel della crisi economica degli anni ‘90, al regime di superare la prova senza grossi traumi.
L’ammazzata del sorcio
Abbandonati dall’alleato sovietico dall’oggi al domani, dopo il crollo dell’Urss, i cubani hanno dovuto reinventarsi un’economia e una collocazione internazionale, senza più gli amici di ieri e stretti tra i nemici di sempre. «È come se ti fossi sbronzato tutta la notte con i compagni e all’alba di ritrovi solo in mezzo alla strada. Hay que matar el ratòn». Jorge, ex autista di mezzi pubblici, oggi tassista abusivo per sbarcare il lunario, sintetizza così l’accaduto. Perse le commesse sovietiche di zucchero di canna, tabacco e rhum, le sole produzioni di un’economia rimasta primaria, caso unico in America Latina, venuto meno il petrolio del Caspio, ai cubani non è rimasto che “ammazzare il sorcio”. Vale a dire buttare giù un altro bicchierino per far fuori la sbornia, oltre che accoppare pure i gatti per sopravvivere.
Sulla costa di Matanzas sono fioriti i piloni per l’estrazione di improbabili giacimenti, più zolfo che petrolio, raffinato nei dintorni della capitale. Impianti di “gasogenador” sono stati installati sulle vecchie carrette degli anni ‘50 tenute assieme con lo spago e pure sui carri armati. Con effetti alla vista e all’olfatto che colpiscono più dei tramonti caraibici. Come il tanfo del passaggio di muli e cavalli nelle “calles” d’ogni città che non sia l’Avana. Dove sono tornati ad essere mezzo di locomozione principale, assieme alle biciclette (cinesi) e ai piedi. I più senza scarpe, per risparmiare le suole. Trasporti pubblici azzerati, elettricità razionata – c’è chi ricorda i materassi trascinati sul lungomare, in cerca d’un po’ di refrigerio nelle notti senza ventilatori – pochi soldi e ancor meno cibo. Fame e disperazione a guidare le prime, grandi proteste di massa nell’agosto del ‘94 – controbattute dalle manifestazioni di regime dell’anno successivo, ancora più imponenti – e le centinaia di migliaia di “balseros” che affidavano all’oceano le speranze d’un futuro quale fosse.
Oggi quei tempi sono finiti, anche se nessuno degli indici produttivi ha recuperato i livelli di dieci anni fa. Le timide riforme economiche avviate dal regime hanno sanato le piaghe più dolenti, ma aperto squarci ancora più profondi nel tessuto sociale della rivoluzione. I mercati “agropecuari” sono tornati a riempirsi grazie alla libertà concessa ai contadini di vendere i propri prodotti, ma la “libreta” dei beni primari razionati ancora rappresenta, per gran parte della gente, l’unico modo per non stringere la cinghia. Dalle vetrine dei negozi, le “tiendas”, e nei centri commerciali occhieggiano merci d’ogni tipo, ma a prezzi che un normale cittadino può a malapena sognare. E in dollari. L’introduzione ufficiale della moneta dell’Impero, a metà degli anni ‘90, necessaria per acquistare tutto ciò che non sia di prima necessità, mentre gli stipendi continuano ad essere pagati in pesos, ha dato vita ad un mercato parallelo che rappresenta uno dei paradossi più stringenti del socialismo caraibico del Terzo millennio.
La caccia alla divisa, al dollaro dell’odiato nemico, ha portato Cuba a dimenticare ogni ipotesi di industrializzazione o piano di sviluppo quinquennale per affidarsi al turismo, divenuto la principale risorsa del paese, fonte primaria di afflusso di valuta pregiata. E i cubani ad affidarsi agli stranieri quale fonte di reddito necessaria ad avere, in patria, ciò che a loro è negato. Di fatto il turista è, agli occhi dei più, una banconota ambulante. Ognuno tenta di strapparne un pezzo, come sa e come può. Tutti, giovani o vecchi, s’avvicinano offrendo servigi con la speranza d’una ricompensa. Tutte, belle o brutte, offrono sé stesse non avendo di meglio da dare. Per soldi, ma anche in cambio d’una cena, l’equivalente dello stipendio d’un mese, in una “paladar” – le ignobili trattorie famigliari spennaturisti, sorte come funghi in questi anni – o nei ristoranti che col loro “novjo” cubano non potrebbero varcare. Per un momento di fuga da un isolazionismo culturale di cui il blocco economico non è che la faccia più appariscente.
Eroesse e cavalcatrici
Da sempre puttanajo degli States, l’isola è oggi tra le mete preferite del turismo sessuale, specie italiano. Non esistono statistiche ufficiali sul fenomeno delle jinetere (letteralmente, cavalcatrici) ma basta un giro per le “calles” per rendersi conto di come la prostituzione di massa, anche maschile, non sia solo un espediente folkloristico. Verosimilmente, coinvolge i due terzi della popolazione femminile tra i 16 e i 22 anni. Dai villaggi dell’interno o dalle città meno attraversate dai flussi turistici, come Camaguey, la chiusura estiva delle scuole vede intere comunità trasmigrare verso le località turistiche a caccia di “cavalcature”. «Questa è la foto del mio bambino, i miei non ci sono più. Qui vivo da una nonna. Posso farti compagnia stasera?». Yurquis, vent’anni, alla riapertura scolastica tornerà ad insegnare in una primaria. Moresca in un liso abituccio bianco, probabilmente il meglio che ha, racconta come tutte storie tristi di genitori persi e figli a carico, ma la verità è che senza quei venti dollari a turista, senza contare gli extra dei pasti, né lei né i suoi potrebbero avere quel che altrove è la norma e qui un lusso. Una realtà che gli esponenti del regime, come i semplici militanti, minimizzano.
«La prostituzione è stata eliminata dal processo rivoluzionario – afferma Manjiola Sanchez del Campo, segretaria provinciale della Fmc di Santiago – oggi non c’è una necessità economica per chi lo fa. Sono giovani di un certo livello sociale, ciò che li spinge non è certo la sopravvivenza. È la ricerca dell’opulenza, connessa alla perdita dei valori e della percezione del livello medio delle condizioni della nostra società. Ognuno desidera avere di più, ma deve sapersi adeguare alle condizioni reali del paese. Comunque si tratta di una percentuale infima sul complesso delle nostre giovani, vere eroine del periodo speciale». Quali siano le condizioni medie di vita lo racconta Ana Maria Torres Bravo. Più che un’eroina, un mito. «Ho 67 anni – racconta dondolandosi sul seggiolone, sigaro tra le labbra – sono nata negra e povera, lavoravo nelle cucine come sguattera per 20 pesos al mese. Solo grazie alla rivoluzione sono potuta diventare una maestra, oggi ho questa casa e una macchina parcheggiata qua sotto. Ho un milione di problemi, come tutti, ma coi miei 175 pesos di pensione – poco meno di sette dollari al mese, ndr – me la cavo perfettamente. E fumo come una pazza». Donna Ana è la responsabile del blocco 707 di Versailles. Quartiere ultrapopolare di quasi seimila anime sopra Santiago de Cuba che della reggia di Francia non ha che il nome. Sul comò l’ennesimo trofeo in terracotta per il lavoro svolto, libri affastellati ovunque. Spegne il televisore in bianco e nero “made in north Korea” e s’affaccia alla finestra del blocco, rettangolo di cemento di dieci piani e venti famiglie di cui è a capo, e sospira: «Anch’io desidero un mucchio di cose, un telefono per esempio. Ma l’avrò solo quando tutti, qui, potranno permetterselo. Abbiamo costruito queste palazzine sulle terre di un latifondista che ora, da Miami, minaccia di tornare a riprendersi tutto. Che venga, lo aspettiamo. Spero solo d’avere la forza di reggere un fucile, quel giorno».
Al di là degli eroismi personali, le donne sono state il pilastro della resistenza negli anni ‘90. Loro hanno sopportato gli effetti più dirompenti del tracollo economico, reinventandosi il modo per mandare avanti la famiglia. E a permettere alle donne cubane, assai distanti dal ruolo di angeli del focolare domestico, di superare la prova è stata proprio la Fmc, attraverso le “casas de orientacion a la mujer y la familia”. Sorta di consultori-centri d’orientamento dove non s’impara solo a mettere insieme pranzo e cena e riciclare l’impossibile, ad attaccare un bottone o evitare di restare incinte ma si garantisce al regime il massimo della pressione sociale e del sostegno che le donne sono capaci d’offrire alla famiglia e al quartiere. Per le “mujeres” della federazione, scaraventate in prima linea dalla crisi economica, questa è stata davvero una «verdadera universidad de vida», come rivendicano in coro. Per le ragazze del quartiere pure, nelle “calles” e nei tuguri ad ore. Ma loro questo non lo vedono, neppure dalla finestra. La sera non escono, restano in casa a guardare le “telenovelas” o ad ascoltare il “son” che i due canali tivù – il terzo, educativo, lo ricevono in pochi, quello di Miami non lo vedrebbero, come gran parte della popolazione, neppure se avessero la parabolica – offrono.
E neppure lo leggono sul “Granma”, “Juventud Rebelde” o “Los Trabajadores” (il settimanale sindacale) che raccontano dei successi del regime ma celano una quotidianità difficile da raccontare. “El ano del los eroes prisioneros del imperio”, come recitano le testatine dei tre periodici del paese esposti nei baracchini degli edicolanti o distribuiti dagli anziani vociadores nelle strade, vede la stampa cubana riprendersi appena dalla crisi, ma ancora in prima linea. Non solo nella martellante difesa dei cinque cittadini cubani – Gerardo Nordelo, Ramon Labanino, Antonio Rodriguez, Fernando Llort e René Sechwerert – arrestati a Miami per spionaggio tra i circoli anticastristi, ma dei valori che reggono tutta l’impalcatura.
Rogelio Polanco, giovane direttore di “Juventud Rebelde”, organo della Ujc, è categorico: «Sulle nostre pagine siamo critici, discutiamo di tutto, ma oltre che informare dobbiamo educare. Non possiamo essere commerciali né frivoli, da qui combattiamo la censura mondiale che presenta come terrorismo tutto ciò che non si allinea al pensiero unico. Siamo la voce dei senza voce, altro che stampa di regime». Il quotidiano della Gioventù comunista è ancora convalescente: foliazione di 16 pagine e tiratura di poco superiore alle 200mila copie, personale dimezzato ma che ancora conta una novantina tra giornalisti e tecnici e occupa un palazzone a ridosso del quartier generale delle forze armate, all’Avana. Sul viale d’ingresso, i militari controllano a vista i radi passanti. Poco distante, i corvi svolazzano attorno alla torre-monumento di José Martì, padre della patria.
Come la loro voce, anche i giovani comunisti sono usciti malconci dalla crisi. Mezzo milione di membri che, a differenza delle organizzazioni di studenti medi e universitari, o dei pionieri che inquadrano, ancora sotto l’effigie di Martì, oltre un milione di “ninos” sotto i 14 anni, sono selezionati per affrontare il futuro. «Tutti i programmi sociali del paese sono diretti ai giovani e dai giovani», rivendica Carnen Rosa, del direttivo nazionale della Ujc, «perché senza di loro non ci sarebbe la possibilità di sostenere alcun processo rivoluzionario. E tutti mirano a migliorare la propria identità patriottica e culturale, contro la globalizzazione imperante». Gli fa eco da Santiago Hilda Milan, 28 anni, responsabile del dipartimento ideologico della Ujc: «Siamo il baluardo storico, l’avanguardia della rivoluzione, secondo gli insegnamenti di Fidel. Lui resta un traguardo per tutti noi. Quando lo perderemo sarà un “dolor muy grande”, ma chi pensa che senza di lui la rivoluzione cadrà è un pazzo. Le sue idee non moriranno mai».
A due passi dal Comité provincial, René ha fretta di raggiungere la sua “chica” ma non resiste alla tentazione di avvicinarsi al turista. «Spagna? Italia? Ah, Italia, nosotros mismo gobierno». Stesso governo, come? «Sì, sì, Berlusconi e Castro, due mafiosi al potere». E il suo sorriso si spegne solo quando capisce che non avete niente da dargli.