Una notte di novembre di trent’anni fa, giorno più giorno meno, veniva giù un muro. Il muro della vergogna, era stato ribattezzato, e divideva non solo materialmente Berlino e la Germania ma idealmente l’Europa, divisa in blocchi, il mondo della guerra fredda. Tirato su in tuttafretta una domenica d’agosto di trent’anni prima, per frenare l’emorragia di berlinesi che dall’Est trasmigravano all’Ovest, quel muro era divenuto simbolo d’ogni separazione. L’averlo buttato giù, aver messo fine a quella violenza umana e politica in modo persino incruento, ha rappresentato nella grande narrazione occidentale un grandioso momento di liberazione universale dalla barbarie, la fine del massimo abominio della storia (non più) contemporanea, quale il comunismo realizzato in Urss.
Una caterva di celebrazioni si sono snocciolate in questi giorni per rimarcare la fine di quell’abominio, la restaurazione del dominio del bene e del logo del dollaro nel mondo (restano, qua e là, sacche di resistenza, è vero, ma sono perlopiù riserve buone a coltivare nostalgie ideologiche e voglie turistiche). Nel profluvio dei commossi ricordi, spicca un post del Pd, erede del Pci, figlioccio degenere di quel partito comunista che di lì a poco avrebbe ammainato la bandiera rossa al Cremlino. Dove un liberatore piccona un brano di muro, tra il plauso dei presenti, mentre sotto campeggia la scritta: contro ogni muro, sempre. Perfetto omaggio al politicamente corretto e allo spirito dei tempi, a disdoro di quanto politicamente fatto e avallato a suo tempo.
Poco importa che sulle macerie di quel muro siano fioriti altri muri e barriere, a dozzine, di tutt’altro segno; che i venti della guerra fredda siano tornati a soffiare imperiosi tra l’Est e l’Ovest, senza manco l’appiglio d’una qualche ideologia se non la mera volontà di potenza. Poco importa che nel bazar delle rievocazioni sia mancata una seria ricerca storica – la storia, questa sconosciuta – fuor di vulgata. Dove si rammenti e si faccia luce, ad esempio, sulle dinamiche di quel crollo, e sul crollo del comunismo nei paesi dell’Est e a Mosca, di lì a poco.
Sarebbe utile, cioè, fare i conti con la fine di un’epoca rimettendo assieme i pezzi d’un puzzle che parte dagli occhi sbarrati di Schabowski, portavoce del governo della Ddr, quando la fatidica sera del 9 novembre ‘89, presentando la legge del nuovo esecutivo, appena varata, in una conferenza stampa internazionale in diretta tv, cade nello sfondapiedi del corrispondente Ansa proclamando urbi et orbi che ognuno poteva spassarsela di là dal muro, “ab sofort”. Da quel momento. Tempo poche ore e già i primi picconi tiravano giù il muro. Ricordo i nostalgici canticchiare: Ceausescu tieni duro, ricostruiremo il muro, prima che il vento della storia soffiasse via un altro pezzo di puzzle a Bucarest, con la prima rivoluzione eterodiretta del dopomuro, ai danni di due poveri vecchi.
Un puzzle che vede la Jugoslavia andare in pezzi e il pezzo centrale incastrarsi sulla Piazza Rossa, col golpe fasullo dell’agosto ’91, a uso e consumo dei media occidentali. Buono a far salire su un’autoblindo “golpista” davanti al Parlamento – la cosiddetta Casa Bianca moscovita, la stessa che due anni dopo avrebbe fatto prendere a cannonate dai carrarmati con un vero colpo di stato, con oltre 600 tra morti e feriti, prima d’essere eletto presidente – un traballante Eltsin, gonfio di vodka e di paura, per cianfrugliare alla folla frasi sconnesse. Utili a togliere a quel pasticcione di Gorbaciov le scene, relegandolo nel bugigattolo della storia.
Gorbaciov. L’ultimo segretario del partito comunista sovietico, nonché presidente dell’Unione delle repubbliche socialiste che alla fine di quell’anno avrebbero chiuso i battenti. Ultimo pezzo d’un puzzle andato in pezzi. Gorbaciov che a pochi mesi da quell’ammainabandiera – pur’esso in diretta tv internazionale, coi fiocchi che cadevano nella notte di Mosca, tra i piedi dei pochi che li battevano nella neve gelata, naso all’insù – si dava a pubblicizzare Pizza Hut e le borse Vuitton, mentre ripercorreva con sguardo schifato il muro. Gorbaciov, premiato col Nobel per la pace e più solidi argomenti dall’Occidente riconoscente; costretto all’esilio dorato in Svizzera ché se lo rivede dalle sue parti la gente lo schioppa. Gorbaciov che a quasi trent’anni da allora, in questi giorni, ha ammesso – bontà sua – di non avere capito quasi niente di cosa accadesse allora.
A fargli il verso, quasi con le stesse parole, l’altra perla del mazzo già comunista, poi postcomunista: l’Achille Occhetto a cui l’Occidente, e men che meno i suoi ex compagni, non hanno manco tributato gli onori cui si dovevano per aver affossato il Partito comunista italiano. Un’impresa che, buon ultimo, Renzi porterà a buon fine prossimamente e compiutamente, con buona pace degli eredi del Pci togliattiano. Come si sia passati dal muro della vergogna al muro dei senza vergogna, interpretando ruoli diversi eppure gli stessi, come un Fregoli del palcoscenico, è un vero rompicapo del puzzle. Come i gruppi dirigenti dei più grandi partiti comunisti al mondo – il russo e l’italiano – abbiano smantellato per insipienza o oculato disegno i rispettivi partiti è cosa che riguarda i pezzi a margine del puzzle e la storia nel suo complesso, tutta da scrivere.
Qui può solo dirsi, da ultimo, che nessun tentativo di rimettere i pezzi nella scatola della storia potrà essere fatto se non tiene conto di una precondizione. Smettere di usare le categorie mentali dell’avversario per non confondere di più i più e sé stessi. Smettere di pensare, lupus in fabula, che i senza vergogna siano una forza di sinistra, progressista, anziché fattivamente reazionaria e al soldo (non solo metaforicamente) di forze potenti e neppure occulte. Una forza non solo antiproletaria ma antiborghese, nel momento storico in cui la rotta di classe accomuna ceti popolari e ceti borghesi, presi nella comune morsa del precariato. Smetterla, prima di tutto, di pagare dazio alla neolingua funzionale al pensiero unico dominante che spaccia lucciole per lanterne, schermaglie d’una retroguardia marcia per luminose lotte d’avanguardia.
Quel Barbaro dominio contro cui il fascista Paolo Monelli si scagliava linguisticamente dalle ridotte di El Alamein, prima della rotta e di cambiar casacca, oggi non è più degli esotismi e dell’esterofilìa, essendo l’americanizzazione del quotidiano avanzata ben oltre nello Stivale già dantesco. I nodi di resistenza devono essere anzitutto verso parole e concetti che deprivano di senso la realtà dei fatti, impedendo di scorgere il vero nemico nella lotta di classe – chiamatela del basso verso l’alto, se vi pare più alla moda – che imperversa più feroce che mai. La vera libertà, che sotto le macerie di quel muro non è affatto risorta, passa attraverso questo imperativo categorico, etico più che kantiano. Il potere della parola va usato contro questo dominio, più barbaro e feroce che mai, a cui siamo assuefatti e perciò tanto più difficile da scorgere e abbattere. Assai più di certi muri.
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