Del doman non v’è contezza Belpaese

Il patriarcato (che non c’è) ai tempi del transfemminismo. Perché una sagra delle banalità come l’opera prima della Cortellesi è il film più visto del 2023Piglia un frego di brava gente, vestila in costume, tipo il 2 giugno, al festone della Repubblica. Facci un film di tendenza, di quelli acchiappaconsensi, sul patriarcato brutto e cattivo ai tempi del transfemminismo e del tracollo del maschio. Infilaci dentro un paro d’attori di quelli giusti, regista compresa, e caricaturisti azzeccati. Dacci una spruzzata di romanesco che fa tanto popolo e giralo in bianco e nero, che fa intellettuale. Buttaci nonsenso, banalità e luoghi comuni a josa. Mescola bene l’intruglio. Mettici il titolo giusto e oplà, il filmone dell’anno è servito. Gustalo col tartiname della critica (sic) cinematografica: caldo, freddo o come ti pare, tanto il sapore quello è. Un successo. Un capolavoro. Un trionfo. C’è ancora domani questo è: roba che per aver risollevato le sorti della settima arte e riportato il vero cinema sul grande schermo merita la palma d’oro e il cucchiajo d’argento, e Paola Cortellesi la grancassa del grancirco mediatico.

L’han visto tutti, ne parlano bene tutti. E tu che fai, non ci vai a vedere il filmone della Cortellesi? L’opera prima divenuta il film più visto dell’anno appena passato? Sì, subodori l’odore della brodaglia “inclprog” ma c’hai pelo sullo stomaco, digerisci pure l’accoppiata Schlein-Meloni, che vuoi che sia? Invece no, già dopo cinque minuti lo stomaco brontola, capisci che quel guazzabuglio è indigesto, sbratti – come dicono in borgata – pure l’anima. T’alzi, vai al cesso, ma non c’è niente da fare. Ti tocca tornare sula poltroncina e buttarla giù tutta la ciofeca, fino ai titoli di coda. C’è la signora Delia – la Cortellesi, appunto – vessata dal marito Ivano (Mastandrea) e più ancora dal suocero allettato, Ottorino (Colangeli) com’era in voga fino a mezzo secolo fa in ogni brava famiglia italiana. La sua vita tribolata, grigia e remissiva, piena di rinunce e mazzate si tramuta in riscatto con un gesto eclatante, clamoroso, che non sveliamo per non rovinare la gioja ai pochi sfortunati che ancora mancano all’appello della buona visione. Diciamo però che c’è la bomba messa dal negrone della polizia militare nordamericana riconoscente (de che?) nel bar del consuocero della protagonista per mandare a monte il fidanzamento della figlia. C’è il cabaret delle paste che cade al momento giusto e la busta dei denari risparmiati infilata al posto giusto. C’è il balletto delle botte, con la fine accortezza d’allontanare i figli e chiudere l’imposte per non farsi sentire dalla gente, com’era d’uso ai tempi, per chi non l’ha vissuti. C’è il motivetto finale sulla scalinata dei seggi, cantato a boccachiusa, supremo omaggio al nulla della storiella e alla retorica bipartisan. E c’è molto altro, in questo film che qualch’ideuzza ce l’ha e due sorrisi a dentistretti li strappa. Soprattutto, ci sono una vagonata di nonsensi, un’infornata di luoghi comuni e d’amenità. Una sagra delle banalità. Questo sono le due ore del film. Al confronto, il bistrattato libro del general Vannacci è un trattato filosofico di buonsenso e razionalismo. Non è un caso, del resto, che chi dileggia l’uno omaggi l’altro. A questo punto una domanda, e l’azzardo d’una e trina risposta.

Perché un simil pastrocchio fa così clamore, riscote tanto successo, vanno le scolaresche in processione sulla via maestra della parità di genere? Saltiamo il fatto che per andare a ripescare un saggio di patriarcato s’è dovuto rimettere l’orologio della storia indietro di mezzo secolo. Meglio sarebbe stato pescare dalla cronaca uno dei tanti omicidi – chiamiamoli così, non con l’epiteto della neolingua oltraggio alla semantica, al senso comune e pure alla statistica. Ecco la prima ragione del bùm. La chiave di volta del successo. L’operetta morale della Cortellessa coglie l’attimo, cavalca l’onda mediatica come meglio non si poteva. In altri momenti il capolavoro da Oscar avrebbe strappato sorrisi di circostanza, non strepiti ovazioni lacrime di popolo. Ma questo non basta a spiegare tanto clangore. In un mondo dove il pensiero dominante è dato dal tiktokista di turno e dall’influenzatore di grido, dove alla fiera delle nullità chi urla più forte tiene banco, cosa c’è di meglio del fumo mischiato al niente, come direbbero in Sicilia, per tirare giù dalla balconata gli applausi del pubblico, parafrasando la buonanima di Céline?

Ma, dice il progressista à la page, film come questo fan bene alle masse, riportano la gente al cinema meglio d’un cinepanettone e, soprattutto, educano le nuove generazioni al rispetto per l’altra. Vero è, e davanti a tanto fine non resta che piegarsi al mezzo. Quanto ad accendere i cervelli, soprattutto delle nuove generazioni, è tutt’altra faccenda. Del doman non v’è contezza, avrebbe tirato le somme il Magnifico. Un altro merito, però, al doman cortellese va riconosciuto. Essere riuscita a fare un film sull’evento cardine del passaggio dalla guerra al dopoguerra senza l’uso di termini desueti quali fascismo e comunismo. A malapena un vago, ironico accenno all’addavenì baffone trapela nei dialoghi. Quale migliore omaggio al politicamente corretto e alla cancellazione della memoria? Eppoi, diciamolo, per le giovani menti sarebbe stato davvero troppo.


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