La resa di Kiev, le due canaglie e l’ideologia gender. Le parole sante di papa Bergoglio Quando le cose vanno male bisogna avere il coraggio d’alzare bandiera bianca. Di negoziare la resa. Meriterebbe un’appendice sull’Arte della resa di Holger Afflerbach la dichiarazione rilasciata alla tv svizzera con cui papa Bergoglio ha spiazzato un po’ tutti. Mentre da Est a Ovest, da Tusk a Macron, da Ursula a Giorgia tutti/e fanno scudo a Putin e ribadiscono la chiamata alle armi nella crociata contro il russo invasore, il papa ha incredibilmente spezzato la grande narrazione che imperversa di qua e di là l’Atlantico. A un certo punto bisogna saper fare la pace e negoziare col nemico, senza vergognarsi d’ammettere la sconfitta, dice, altrimenti le cose andranno peggio.
Certo, le cose vanno maluccio, per Zelensky e i suoi sodali. Sul terreno, l’Ucraina perde pezzi ed è ovunque in ritirata. Neanche sul fronte interno le cose vanno meglio. Esiliato a Londra il generale Zaluzhny, comandante in capo dell’esercito di Kiev, quale capro espiatorio della fallita controffensiva durata sei mesi, ma in realtà pericoloso rivale dello stesso premier. Zelensky, che i sondaggi danno per perdente in caso di elezioni, rinviate sine die, il capo carismatico della resistenza ucraina ha più accoliti e pubblico a Sanremo e da Vespa che in casa. A livello globale, la sarabanda di sanzioni che avrebbero dovuto spezzare le reni all’invasore non ha scalfito la Russia, ma costretto i poveri europei ad accedere a un mutuo prima d’accendere i fornelli. L’unico che se la ride è il nonno d’America, ma sempre più malfermo sulle gambe com’è non si godrà i frutti della vittoria.
Non sono però considerazioni tattiche o d’opportunità politica quelle che hanno spinto Bergoglio a invocare la resa, con parole subito rigettate da Kiev – non si tratta col novello Hitler – e accolte a Mosca – noi pronti, purché l’Occidente cessi le sue ambizioni. Sembra piuttosto un’uscita di buon senso, come spesso capita a chi è un po’ là con l’età. Immediato, o quasi, lo scatenarsi della canèa mediatica, per una volta disallineata col santo padre e critica verso le sue parole. Non è un caso che, dopo una manciata di minuti, la sala stampa del Vaticano s’è vista costretta a una noterella di distinguo e rintuzzamenti. Ma tant’è. Il sasso era finito in piccionaja e le bianche colombe della pace hanno tentato di spiccare il volo.
Tanto più che il papa non s’è limitato a consigliare la resa davanti al malfido cosacco, ma ha detto la sua pure sul genocidio in atto a Gaza, puntando l’indice sui due criminali in campo, tanto Hamas quanto Netanyahu, di cui quel movimento è frutto. Padre e figlio della stessa rabbia e lucida follia. Ma l’intemerata del papa ha superato ogni limite quando, sempre a braccio, s’è scagliato contro un “must” del Pud, il Pensiero unico globale, e caposaldo del mondo nuovo al contrario: la fascinazione del genderismo. L’ideologia gender non è una bella cosa per niente, si freni lo sfacelo della transumanza disumanizzante. E qui l’imbarazzo è divenuto gelo, col gotha ebraico-massonico-progressista – diremmo plutocratico, se la parola non evocasse mesti ricordi – e la maramaglia arcobalena coi loro portavoce globali a chiedersi come frenare la voce del vegliardo pontefice, “dal sen fuggita”.
Ciliegina sulla torta di tanto parlar da papa il consiglio di lettura, già espresso in altre occasioni: Il padrone del mondo di Bob Benson, figlio dell’arcivescovo di Canterbury, tra i caposaldi della letteratura distopica d’inizio Novecento. Lì è già scritto tutto, come andrà a finire, ammonisce il pontefice. Speriamo che almeno il bombardamento anglotedesco della cattedra di Pietro sia risparmiato, a lui e noi. Che dire, santità. Parole sante, anche se adesso toccherà ai piccoli uomini, ai servi di casta & cappa riparare umanamente lo sbrego mediatico, i tre schiaffi del papa ai portatori di stendardo sulla via crucis dell’Occidente.
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