Cos’è il limes? Per sentirlo, più che capirlo, bisogna salire sull’immane muraglia che i cinesi eressero per migliaja di chilometri a separarli dai mongoli, senza riuscirci. O, a voler stare nel nostro Occidente, passecchiare lungo il Vallo d’Adriano che serpa nelle brume scozzesi. Nel nulla del mondo. Il limes era questo, per gli antichi: un diqua o dilà. Noi e loro. Qui la civiltà, oltre la barbarie. I coèvi l’hanno perso, il senso del limite. Come molto altro, affossato dalla modernità. Che limite vuoi trovare in un reale dove basta un clic per andare in qualunque altrove, connetterti con l’universo e crederlo più reale del mondo? Non c’è limite, per i moderni. Al massimo, un confine da superare barattare, una mattonella su cui litigare. Minutaglie.
E allora, ben venga il limite. A ricordarci l’oltre possibile, un diverso altrove. Una mescola di sensi e corpi, emozioni e percezioni. Il limite di Manuela Giusto. Il Giusto limite. È un’antologia che parte da lontano, la sua. Un punto d’approdo, quello messo in mostra alla galleria Faber di Roma. Elementi, questo il titolo dell’esposizione, rappresenta la sintesi d’un lavoro ventennale che la fotografa mette in scena, da fotografa di scena qual è, nello spazio con cui collabora artisticamente da un buon decennio. Un progetto organico, come organica è l’immagine esposta, sia essa eterea o concreta, pelle o aria. Ed è davvero un otre dei venti materico quello che fuoriesce dall’obiettivo della fotografa romana. «Nell’iconografia dell’artista la mescolanza tra elementi e corpo diviene altro: natura, spirito, per tornare all’umano, in una rappresentazione antropomorfa e archetipale», dice Cristian Porretta, gallerista e curatore. L’archetipo, dunque.
Un corpus iconico, quindi, una quinta teatrale, scenografica quanto basta pur nei ridotti spazi della galleria. Un percorso immaginifico dove si mesce ragione e sentimento, tradizione e innovazione. «Ho scelto la fotografia per vedere l’oltre – dice la fotografa – ogni foto è un mezzo per ri-costruire un’altra visione della realtà». È un limite, quello di Manuela, cercato per vent’anni e tutt’altro che concluso. Un approdo che suppone una nuova partenza. Ché limite è l’aldiqua, certo, ma soprattutto quel che pensiamo o vogliamo sia tale. E allora gli Elementi in mostra sono l’esito d’una ricerca non doma, inesausta, inconclusa. Ché limite è ciò che non si supera, quel che accettiamo. E qui, se proprio vogliamo giocare con la parola, il limite dato è nel mezzo. D’impatto, certo, l’onirismo delle figurazioni aeree, la soavità parangelica di certe movenze, i liquidi trascolanti sulle nudità maschie e femminee.
Ma il pezzo forte è nella piccola imago d’acciajo spazzolato dove l’occhio verde della modella incatramata cattura lo sguardo dell’osservatore, e si sperde nel candore su cui poggia il corpo. Ecco, se proprio vogliamo dare un limite a questi elementi, è nella loro natura. Costretta su carta e tela, laddove altri supporti, di legno o pezza, vetro o metallo, appunto, avrebbero spinto oltre il limite l’immagine data. Ma per questo c’è tempo, come per superare un certo manierismo d’intenti che paga lo scotto a una ricerca ventennale. Il Giusto limite non è ancora dato, l’esito tutt’altro che scontato. Fino al 29 aprile, info galleriadartefaber.com
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