Gianroberto Casaleggio se n’è andato per un ictus, ieri a Milano, nella città in cui era venuto al mondo il 14 agosto di 61 anni fa, e i più sono venuti giù dal pero alla notizia. Qualcuno, anzi, ci ha pure buttato lì una battuta mica tanto: ma chi gli ha sparato? L’inventore dei 5 Stelle se n’è andato per suo conto, invece, vittima del male che già lo aveva costretto a operarsi due anni fa. Ciao Gianroberto, hai lottato fino all’ultimo, ha scritto sul suo blog l’amico Beppe Grillo, cofondatore del movimento 5 Stelle in quel del teatro Smeraldo di Milano, il 4 ottobre 2009, su cui ricade per intero l’eredità etica e politica del guru scomparso. La sua eminenza grigia, l’uomo delle tenebre e del mistero, secondo la narrazione ufficiale, che immaginava un mondo post mediale retto dalla rete ma che dai suoi uffici di via Moroni, a due passi dalla Scala, tirava le fila del movimento e dettava regole e discorsi al camaleontico leader di piazza. Lui, che tutto era fuorché animale da palco e nei rari momenti in cui era costretto a salirci – sui ponteggi a San Giovanni alle ultime amministrative romane, o in basco verde quando saltò giù dal barchino per dar manforte all’amico Beppe nelle ultime bracciate all’attraversata dello Stretto di Messina, per esempio – gli tremavano voce e gambe. Strambo e anomalo fin nel vestire, in black look da pirata globale. Con quel papocchio di capelli bigi sotto al coppolino, look da scapiglione ma in giacca e cravatta da perbenista. Quasi a voler fisicamente mostrare in quel trait d’union il suo vissuto, dalla scapigliatura sessantottesca alla managerialità olivettiana. Quel non essere né di destra né di sinistra, coerentemente allo spirito dei tempi, ma attento all’unica divisione permanente, quella fra chi sta sopra e chi sotto. Fra chi sta fuori e chi dentro la rete. Una separazione che pretendeva ribaltare grazie al web, appunto, vagheggiando una sorta di Grande fratello telematico che avrebbe portato democrazia diretta e giustizia in tutte le case.
All’abbrivio del nuovo governo mondiale aveva pure dato una data, con pizzico d’umana vanità: il 2054, centenario della sua nascita. Quando una terza guerra mondiale tra Oriente e Occidente avrebbe dato il là a una nuova era dello spirito dove tutto, o quasi, di ciò che è noto, a partire dai media ai partiti tradizionali, sarà relegato nelle chincagliere del passato e sugli svincoli delle tangenziali si metteranno alla gogna i corrotti, durante gli esodi dei weekend. Un visonario che amava pascersi di Camelot e net, inviso alla sinistra ancora più che alla destra e perciò irriso, da Crozza a Vauro. Che a poche ore dalla morte pubblica l’infelice vignetta di Grillo accasciato a terra come un Pinocchio di legno, venuto meno il burattinaio. Se questo sarà, se il movimento che in un pugno d’anni è divenuto partito forte di milioni di voti – a rischio d’essere maggioranza ancorché paria della politica nostrana e di consensi che nessun abatino fiorentino o Cavaliere nero in caduta libera possono più nemmeno sognare – non sopravviverà al suo cofondatore, quella grillina sarà davvero una rivoluzione mancata e la morte di Casaleggio una jattura, non solo per la sua creatura.
Per intanto Grillo, dopo aver tentato la marcia indietro rispetto al movimento, dovrà tornare a rimboccarsi le maniche, affidando al direttorio più di quanto finora concesso, forse pure in termini di democrazia interna e non solo online, come pervicacemente pensava il maestro scomparso, in previsione di quel salto di qualità che porterà i pentastellati a governare o a perire. Ma Vauro, fedele cantore di piazza degli umori d’una sinistra che non c’è più, ha almeno il merito d’essere coerente a sé stesso e all’immagine della sinistra che più non è ma ostinatamente si autorappresenta, mentre tanti, coerentemente al dettato che non vuole si parli male del morto, sono lì a tessere le lodi dell’ombroso che se n’è andato. Grande uomo di cultura, narra con verità l’ex repubblichino e premio Nobel Dario Fo. Grande, grandissimo politico, l’omaggiano i tanti che lo sbeffavano e insultavano fino a ieri, dal presidente in ombra Mattarella giù giù per li rami, per dirla come il poeta. All’uopo piace ricordare alcune massime che il guru – ché tale Casaleggio era non solo per i suoi, in senso letterale – amava dispensare.
«La democrazia diretta, resa possibile dalla rete, non è relativa soltanto alle consultazioni popolari, ma a una nuova centralità del cittadino nella società. Le organizzazioni politiche e sociali attuali saranno destrutturate, alcune scompariranno. La democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato. È una rivoluzione prima culturale che tecnologica». E un’altra, che casca bene alla vigilia del referendum sulle trivelle: «Non bisogna aspettare che finisca il petrolio: l’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre». E infine: «Il sapere è il mezzo che ti permette di misurare le cose, i fatti, le situazioni, la logica in una dimensione altra. È questa l’intelligenza». L’intelligenza del sapere, o delle cose, a misura dei tempi ma fuori dai tempi. Precursore o visionario, eminenza grigia o fiancheggiatore, populista o progressista, questo credeva e chiedeva, al fondo, uno dei maggiori interpreti del nuovo che se n’è andato. Tra gli artefici dei cambiamenti politici in atto non certo solo nel nostro paese, ma di cui il Belpaese è spesso all’avanguardia. Dell’antipolitica che si fa politica, dalla (contro)rivoluzione in camicia nera di Mussolini a quella in doppiopetto di Berlusconi, alla web democracy di Casaleggio, mutatis mutandis. Piaccia o disgusti.
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