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I cecchini sul tetto

I cecchini sul tetto

Antefatti, fatti, incongruenze e conseguenze dell’attentato al probabile futuro presidente degli Stati (dis)Uniti d’America

Gran paese, l’America. O meglio, gli Stati (dis)Uniti d’America. Che popolo, gli statunitensi o amerikani che dir si voglia. Sparano a un terzo dei loro presidenti, accoppandone cinque su 45, e la cosa fa sempre notizia. La più grande democrazia imperiale gioca al tirassegno coi suoi capintesta, sta perennemente sull’orlo d’una guerra civile ma è la matrigna del politicamente corretto à la page e resta la democrazia per antonomasia, uber alles. E il mondo, quello buono & vero, ancorché virtuale, a fare il tifo per loro, unici & inimitabili portatori di democrazia seriale. Eppoi è metodico, l’amerikano. È vero che ogni tanto inventa qualche metodo nuovo – il Cessna schiantatosi sulla Casa Bianca con Clinton nel ‘94, la bomba a mano a Bush junior a Tblisi nel 2005 – ma in genere resta fedele al copione. C’è il pazzoide, lo scriteriato isolato che per qualche ragione ce l’ha col presidente di turno, democratico o repubblicano poco importa, e gli spara. Poi qualcuno, immancabilmente, lo fa fuori e i cecchini veri, che hanno avuto l’agio di prendere la mira, tirare e sparire, escono di scena mentre le luci della ribalta allumano tutt’altro prima di spegnersi, nell’affievolirsi del cancan mediatico. Anche con Trump è andata così. E mentre il mondo, quello buono & vero, s’interroga sui rischi di un’ennesima guerra civile made in Usa scatenata dalla malvagità dei trumpiani, e sulle falle nella sicurezza dei mitici servizi segreti nordamericani, le carte restano coperte, si rimescolano in attesa del prossimo giro. Andiamo a vederle, queste carte.

Gli antefatti

Tre cose appaiono degne di nota, anzi quattro. Nell’ordine: Orban, bistrattato presidente di turno dell’Ue, termina il giro di propaganda del piano di pace di Trump per mettere fine alla guerra in Ucraina – una priorità, per il neopresidente in pectore – forte del sì incassato a Mosca, Pechino, Delhi e Ankara e digerito pure da Kiev, tra le urla e lo stracciarsi di vesti delle marionette occidentali fedeli alla linea che non c’è più. Il vecchio Sleepy Joe mostra in diretta mondiale quanto sia rimbambito ma non molla, del resto chi comanda davvero negli Usa non ha bisogno d’un presidente forte, assai meglio un vegliardo ultramalleabile. Però resta lucido al punto da raccomandare ai suoi di tenere sotto mira l’avversario, mimando il colpo di fucile. Qualcuno l’ha preso in parola. Non ultimo, una cinquantina di funzionari delle maggiori agenzie dei servizi del paese firmano un documento in cui si sottolineano i rischi per la pax americana se, com’è probabile, dovesse vincere Trump alle presidenziali di novembre. Gli stessi servizi che si sono dati da fare per tirare giù dal piedistallo l’ex presidente, barando alle elezioni che hanno portato alla vittoria di Biden e alla rivolta di Capital Hill, con pene pesantissime per i partecipanti, e sfornando i dossier che avrebbero dovuto mettere con le buone definitivamente fuori gioco Big Don. Dossier ora gettati nel cesso dai vari giudici.

I fatti (accertati)

Verso le 18 di sabato pomeriggio a Butler, in Pennsylvania, Thomas Matthew Crooks, un ventenne occhialuto dalle lunghe chiome bionde che pare uscito da un rave dei Beatles, sale su un capannone che domina un pratone dove Trump sta parlando alla folla. Striscia lungo il tetto e si mette comodamente in posizione di tiro a circa 150 metri dal presidente, con un’arma da guerra semiautomatica, senza cannocchiale di precisione a quanto è dato vedere. Il tizio viene notato da più testimoni che lo segnalano alla marea d’agenti presenti, mentre i cecchini lo tengono sotto tiro per una buona mezz’ora. Un poliziotto lo fotografa, un altro sale sul tetto ma, alla vista di qualcosa – del fucile, si dirà – si ritira prontamente. Nessuno dice a Donald di togliersi di mezzo, mettersi al riparo. Il ragazzotto o chi per lui spara alcuni colpi, uccide e ferisce nel mucchio e colpisce di striscio all’orecchio Trump, portato via di peso dal servizio di scorta. Quel Secret service diretto da Kimberly Cheatle – letteralmente, “imbrogliona” – che si fa un vanto d’aver inclusivamente inzeppato la scorta presidenziale d’agenti donne che faticano a tenere in mano una pistola. Sanguinante, Big Don, anziché scappare o farsela sotto come chiunque, alza il pugno e forse il dito medio: grida alla folla, inebetita, di combattere e chiede alla scorta di recuperargli una scarpa, persa nel parapiglia. Poi si lascia trascinare via, mentre i cecchini freddano il ragazzo che avevano finora inquadrato nei loro mirini. I morti non parlano, ammesso avesse avuto qualcosa da dire. Le ultime immagini lo ritraggono al momento in cui è colpito: lungo, disteso a diversi metri dal fucile.

I fatti (presunti)

Lasciamo perdere le incongruenze, chiamiamole così, della sicurezza e concentriamoci sugli spari. Chiunque abbia preso un fucile in mano sa che occorre una buona dose di sangue freddo, e di fortuna, per centrare un bersaglio sotto pressione, mentre si è sotto punteria di una mezza dozzina di tiratori professionisti. E quel ragazzo non lo era. S’era allenato, sì, ma restava una schiappa, incapace di centrare un bersaglio sia pure non distante e allo scoperto, tanto più con un’arma priva di cannocchiale di precisione, come ha riferito il suo istruttore di tiro. Eppure avrebbe centrato il presidente in pectore, se Trump non avesse mosso casualmente la testa quel tanto che è bastato a salvargli la vita. Questione di centimetri, meno, come mostrano le tante riprese. Poi c’è quello scatto che mostra il proiettile in arrivo prima di colpire Trump, che probabilmente darà al suo autore il World press photo. Peccato che il proiettile sia sull’altro lato rispetto a quello colpito, dunque sia un colpo in uscita o venga dal lato opposto rispetto allo sparatore noto. Piccole disattenzioni del mainstream mediatico, lacune che resteranno tali finché non salteranno fuori altri video. Se è vero che serve bravura e fortuna per centrare il bersaglio, ne serve assai più sfiorarlo volutamente. Dunque la messinscena non è sul colpo (sui colpi): si voleva uccidere, non sparacchiare a caso. E veniamo alla domanda: cui prodest? A chi serviva Trump morto? Chi è stato?

Le conseguenze

Su quest’ultima domanda diciamolo subito: ci sono almeno quattro servizi negli States che si pestano i calli a vicenda, ed escludendo per quanto detto sopra che Trump abbia detto ai suoi di sparargli addosso, bisogna guardare da un’altra parte. Non serve un ordine diretto del presidente o chi per lui, il lavoro sporco lo fanno i gregari, nascosti dietro l’Oswald di turno. A intorbidare le acque arrivano pure i rapporti dei servizi e le rivelazioni della Cnn sul ruolo dell’Iran nel complotto. La conseguenza immediata è che Trump ha ricompattato i suoi, che l’hanno incoronato candidato ufficiale alla presidenza alla convention di Milwaukee, dove s’è messo il vecchio nemico Vance a fargli da spalla. Un cattolico con ottime entrature sioniste. D’altra parte Elon Musk ha subito staccato per Big Don un assegno da 45 milioni di dollari, mica bubbole. Segno che una certa economia, e il potere del capitale finanziario che la sostiene, punta su di lui.

Le conseguenze nel medio periodo saranno probabilmente di rafforzare la leadership trumpiana e il distacco nella corsa con Sleepy Joe che arranca. Ammesso che resti lui il candidato dell’Asinello e che questo non lo scalci alla convention d’agosto. Se Trump vincerà le elezioni la guerra in Europa finirà in poche ore, come promesso, e per le marionette d’Europa si tratterà di riallinearsi. I pagliacci del circo mediatico lo faranno con qualche difficoltà. Magari capiranno anche da che parte stanno gli interessi europei, che certo non saranno tutelati da Trump, tutt’altro. All’Europa resteranno i cocci e i debiti di una guerra combattuta per procura, in nome della libertà e della civiltà dell’hamburger. Anche la Nato dovrà rivedere i suoi piani d’espansione, oggi nell’Europa orientale e domani in Asia e in Cina. America first e pure fist, come dice e mostra Trump. In Medio Oriente invece non dovrebbe cambiare molto, lì Israele continuerà a fare il bello e il cattivo tempo, a Gaza come in Libano e in Iran. A meno che il futuro presidente non voglia mostrare doti da statista vero, oltre che da uomo di indubbio fegato.

Ce n’è comunque abbastanza perché qualche buontempone abbia voluto tirargli un brutto colpo. Bruttissimo, visto che gli s’è ritorto contro. Questione di centimetri. Forse è per questo che negli Usa impazzano i santini con san Michele arcangelo, l’angelo combattente, che gli fa scudo con la sua corazza, o più prosaicamente nelle vesti di Superman, in volo col ciuffo al vento. E a san Gregorio Armeno già impazza, benché fuori stagione, il Trump sanguinante tra i personaggi del presepe. Se continuerà a essere un miracolato, o sarà fulminato sulla via di Washington prima che arrivi al suo secondo mandato, è ancora presto per dirlo. Il mazzo è sul tavolo, la partita è aperta.


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