La famiglia, la più alta tragedia dell’umanità. Oppure, nella migliore ipotesi, bolla e riparo alle insidie dell’esistente. Un esempio d’ambo i casi è in un libro di Luigi Michele Perri, Il monocolo – Rai Eri, 9 euro – che è, a un tempo, specchio dei tempi e fuori dal tempo. Della Calabria di fine ‘800, dell’alleanza e della lotta senza quartiere fra due potentati economici, i Morelli e i Quintieri, due famiglie di notabili meridionali le cui vicende vengono rievocate alla luce della storia d’amore fra due rampolli delle rispettive casate, Caterina e Salvatore.
Perri, già giornalista Rai e autore di saggi su mafia, questione meridionale, fascismo e Mezzogiorno, racconta uno spaccato della sua terra d’origine, il Savuto, partendo da questo amore trovato e naufragato per narrare l’evoluzione del meridione attraverso gli intrecci famigliari di una storia che larga parte ha avuto nelle fortune, e nei patimenti, delle rispettive famiglie agli albori dell’Unità d’Italia. Lo fa scegliendo il registro narrativo, costruendo cioè attorno alla figura dei protagonisti una storia che si vuole romanzata, ma in una fattura saggistica che risente d’un linguaggio manierato. Una cifra stilistica che, pur non impedendogli di vincere la seconda edizione del premio NarreRai, rappresenta il limite più evidente dell’opera.
Il monocolo, simbolo d’estrazione sociale e distacco d’uno dei protagonisti, il temuto e potente senatore Donato Morelli, esponente del latifondo improduttivo con epicentro Rogliano, nel cosentino, già fervente patriota, di nobili natali ma ridotto al verde, vede l’incontro-scontro tra questi e il suo antagonista. Angelo Quintieri, rampante deputato di Carolei, sull’opposto versante della Sila cosentina, che si afferma in grazia delle sue aderenze e del patrimonio mobiliare di cui dispone, anche se privo di titoli nobiliari. Pur detestandosi, i due esponenti del notabilato locale cercano un’alleanza che offra loro reciproci vantaggi economici ed elettorali, sbarrando al contempo il passo alle sopravanzanti schiere radicali. Suggello del connubio, il matrimonio combinato tra una giovanissima Caterina, figlia dell’anziano senatore divenuto vedovo, e Salvatore, più smagato, ma non meno succube ai voleri di casa Quintieri. E qui lasciamo celebrare all’autore la coppia.
“Caterina era semplicemente bella. Teneramente bella. Ingenuamente bella. Era una di quelle prede che il buon cacciatore, il cacciatore raffinato, sogna sempre di catturare, prima o dopo. La fanciulla non scatenava bollori. Suggeriva, semmai, attenzioni delicate, appostamenti cauti, atteggiamenti pazienti. Suscitava rispetto e attesa. Solo che il suo sguardo adulto, pieno ed intenso, ammirato sulle più intriganti provenienze esterne, esprimeva voglia d’evasione e, forse, di trasgressione a dispetto d’un habitat opprimente, pieno di ombre e di anticaglie, di spazi ampi e di silenzi lunghi, interminabili gli uni e gli altri. Ad incrociarlo, quello sguardo vivo e malizioso, il brivido arrivava magico per accendere la vampa dell’attrazione. Il predatore, portato a condividere la malizia e ad ignorare l’innocenza, faceva la sua parte. E Salvatore, che predatore era, sapeva recitarla, la sua parte, ogniqualvolta se ne procurava l’occasione. Predone e bracconiere, ben più che cacciatore, stava sempre in agguato, pronto a vibrare il fatidico colpo.
Salvatore e Caterina s’intesero subito. I due si cercavano con gli occhi. Lei intuiva di non essere protagonista di un gioco, piuttosto presentiva la seria possibilità di realizzarsi nel suo mondo. Era in ansia, un po’ perché voleva uscire dai silenzi e dalla noia di quella casa, dai travagli della famiglia, dalla cappa delle distanze generazionali, molto perché alla sua età voleva già provare a collaudare i suoi sogni, a verificare fantasie e immaginazioni, ad assimilarle alla sua realtà e a vivere nuove scosse ed emozioni. Salvatore aveva fretta. Intendeva portare in dote alla famiglia la sua missione compiuta”.
Così, fra i due scoppia l’amore, e pare amore vero, a dispetto degli intrighi di famiglia e delle reciproche inadeguatezze. Un amore che porta la coppia al matrimonio connaturato all’ambiente sociale e combinato dai famigli non meno che dalle proprie nature. E a trasferirsi a Napoli dove il giovane può svolgere il servizio di leva e accudire alla fresca sposa, nonché al pargolo subito giunto. Tutto sembra procedere per il meglio, quindi, finché il fato, o per meglio dire l’umana pazzia in agguato dietro le redingote come i cappellacci, o più banali motivi d’interesse uniti alla miseria umana a dispetto della ricchezza di classe, faranno della vita di coppia terreno di scontro e di ricatti fra le rispettive famiglie. Con uno strascico d’odi e vicende giudiziarie che mettono a nudo la pochezza intellettuale e morale dei Quintieri, più che dei Morelli. Ma l’esito della vicenda non sarà favorevole neppure per loro, mettendo in luce quanto può la volontà d’odio nella follia del mondo. Di più è meglio non dire, per non svelare una storia che sa d’antico ma è ancora in grado di dire una parola sull’oggi. Sui guasti del familismo e sul gattopardismo, non solo meridionale.
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