Non è un caso che per la sua prima visita pastorale Jorge Mario Bergoglio scelse Lampedusa. Terra di migranti, oltre che di pescatori, e sull’altare a barchetta e il pulpito ricavato da un timone scassato, al vento della campagnola che gli rovesciava la mantella al punto da farlo parere un imam, più che un papa, Francesco ha dato il segno al suo pontificare. Misericordia e modestia, un occhio agli ultimi e l’altro a ripulire la chiesa dai tanti peccatori che l’infestano, dai piani alti giù giù agli scantinati vaticani. Già in quella sua prima uscita, di segno così diverso e persino opposto ai suoi predecessori, erano a ben vedere le costanti del suo magistero. Riportare la chiesa all’umiltà del santo frate da cui ha preso il nome, con un’attenzione ai media che appare casuale ma è piuttosto frutto di un accorto disegno comunicativo che nessuno immaginava, quando biascicò il suo buonasera affacciandosi la prima volta dal balcone pontificio, dicendosi venuto dall’altra parte del mondo.
Al tempo stesso mediatici e iconici anche i segni a cui si è lasciato andare il pontefice, calcando il calvario di Lesbo assieme al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e all’arcivescovo greco Geronimo. La corona d’alloro gettata a mare all’unisono, a gloria e memoria delle vittime, il pianto della bimba ai piedi del vescovo di Roma, prontamente raccolta dalle sue mani. A ben vedere, al pontifex non serviva neppure tale surplus di pathos, gli bastava traversare col suo manto bianco i cancelli di Moria, dove una mano iconicamente simile a quella islamica di Fatima invita a stare alla larga, assieme all’altre più rudi dei poliziotti greci di guardia, per dare un segno della sua chiesa in questo tempo. Là dove l’Europa sbarra il passo ai migranti ergendo muri fin nel suo cuore, fino al Brennero, il papa vola su questo pezzo d’Europa sospeso verso l’Asia a ribadire che se ha senso per essa dirsi cristiana, non deve alzare barriere ma tendere la mano a chi sbarca. Quasi mezzo milione di povericristi nel 2015, quasi 500 al giorno quest’anno, solo su questa costa vista Turchia, prima di tornare tra le braccia di Erdogan o accostarsi a un futuro che non sia guerra e fame.
Nessuno sa, ora che la rotta nord della transumanza è sbarrata da gas e filo spinato a Idomeni, da sud si preparano nuove ondate di profughi sulle coste italiane e quella centrale scoppia nel sole di Moria, dove può giungere l’onda lunga dello tsunami umano. Ma il papa è lì, a respingere la globalizzazione dell’indifferenza a partire dal calderone di Lesbo. E anche gli occhi della sua figlia più grande, la poetessa Saffo, pittati sul murale dell’angiporto tra il bianco e l’azzurro della bandiera greca, pare sorridano al segno d’amore del pastore argentino.
Ma c’è, in questo tredicesimo viaggio del papa – il più triste, a suo dire, e non c’è ragione di dubitarne – qualcosa che va al di là dell’amore ecumenico, pure centrale nell’agire del pontefice, che lo rende icona dei tempi. Ed è esattamente nel ritrovato ruolo di pontifex, come voleva la tradizione romana e, prima, italico-etrusca: di custode dei ponti come luoghi di passo e d’incontro con l’altro, perciò centrali nella percezione del sé. Francesco – e i cinque minuti concessi al socialista da burla Bernie Sanders, l’anti Hillary alle presidenziali Usa, lo rafforzano – offre di sé una visione da pontifex maximo degna dei cesari. Chi scrive non è stato tenero con Bergoglio, al momento della sua elezione. Ma al pontefice venuto dall’altra parte del mondo va dato atto d’incarnare al meglio il suo ruolo di pontiere tra popoli e fedi. E di restituire alla chiesa quel ruolo etico e politico a un tempo che i troppi scandali e l’agire a senso unico degli ultimi decenni avevano appannato. Ma anche in questo è la grandezza della chiesa di Roma, le ragioni del suo perdurare nel mutare dei tempi e dei miti. Quell’unità nella diversità, nelle avversità esterne e nell’avversione tra le parti che la compongono che la mantiene nei secoli. È presto per dire se con Francesco la chiesa sia alle soglie di una nuova età dello spirito (santo, per chi sia credente) che restituisca forza e vigore originari a un’istituzione pervicacemente reazionaria per larga parte della sua storia, recente e meno. Ma a Lesbo, e prima a Lampedusa, un seme è stato gettato. Qualunque persona di buona volontà può sperare che non sia a mare.
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