Urgenze etiche, ballate poetiche: Vinicio Capossela in tour
Ci sono urgenze che non si possono trattenere, bisogni che scappano. E quando scappa, scappa. Bisogna trovare un posto dove acquattarsi, dare sfogo al corpo. Quelle che Capossela porta in giro nell’ultimo spettacolo sono urgenze non corporali ma musicali, dell’anima: “Con i tasti che ci abbiamo, canzoni urgenti in teatro”. Il teatro, ieri, era il vecchio – si fa per dire – auditorium di via della Conciliazione, a due passi dal Cupolone, per la prima tappa romana del tour anticipato a Fiesole a luglio e iniziato a Carpi ai primi d’ottobre. Quasi due ore e mezza di ballate etiche, epiche: le tredici canzoni urgenti dell’ultimo lavoro e alcuni classici del repertorio caposseliano. Un turbinìo di suoni e colori sarabandati in una scenografia scabra, ai limiti dell’essenziale: una luna sospesa tra nebbiosità sonore e luminarie cimiteriali, o piuttosto lumini da grazie che qualche santo ha da concedere, un divanetto rosso. E “sul divano occidentale” Vinicio s’accascia, con tanto d’elmetto in capo, al termine del brano che dà la stura al concerto, chiuso tra ovazioni e racchiuso in un commento, fra tutti, fuggito dalle labbra d’una spettatrice: che artista, mammamia. Ma procediamo con ordine.
Sono ballate epiche, etiche quelle del nuovo lavoro portato sul palco da Capossela, s’è detto. Funambolo che sotto la luna di carta gigioneggia col pubblico coi tasti che ha, senza lesinare stoccate al governo che abbiamo e sciabolate ai guasti dell’oggi. La guerra, anzitutto, rielaborata dalle visioni poetiche di Brecht (la crociata dei bambini) e oniriche dell’“Ariosto governatore” in Garfagnana, con la ragione umana dal sen fuggita per finire sulla luna e lasciarci preda della nostra follia, qui in terra. Il consumismo sfrenato, figlio del capitalismo al giro di boa prima dello schianto, sintetizzato nella formula del mangia quanto vuoi, più che puoi. La memoria della resistenza (staffette in bicicletta) da reiterare in tempi grami come i nostri, dove ognuno è “parte del torto”, nessuno escluso. Vinicio non manca di battere sui tasti dei temi cari al politicamente corretto, la violenza di genere (la cattiva educazione) e l’universo carcerario (minorità). Ma lo fa a modo suo, fuor di morale, da guitto che affronta l’orrore e il disincanto tra lazzi e frizzi, e combatte la battaglia civile con l’arma del riso e del pernacchio. Scontro a cui l’arte non può sottrarsi quando la politica si fa spettacolo, tiene a ribadire.
Eppoi oplà, un bel salto nella pozzanghera, o meglio nel pozzacchio, come recita il trascinante “cha cha chaf della pozzanghera”. Ché lui è anche questo: inventore di parole, guascone che quando la mestizia strugge la butta in caciara, per non lasciarci sopraffare. Così alla fine, dopo aver suonato i tasti che ci abbiamo, quelli rimasti dopo la rottura del piano, non c’è che da ringraziare per “il tempo dei regali” avuti dalla vita e per quelli che ci dà saltabeccando sul palco col suo calice di spritz, testimone dell’oggi. Ché in questo, infine, è la grandezza della sua arte, del suo essere cantore e scrittore, musico e paroliere: stare fuori dal coro, dal tempo, e allo stesso tempo dentro questo tempo di passaggio. Da superare con un bicchiere in mano, il sorriso a fior di labbra e gli occhi puntati su un diverso futuro possibile. Che artista, mammamia. Dopo Roma, ancora stasera, si va da Ravenna a Cagliari, a fine anno. Info www.viniciocapossela.it
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