Ormai è fatta, con buona pace dei carnivori. Entro il 2040 oltre la metà della carne che finirà nei nostri piatti non sarà di origine animale ma verrà coltivata in vaso o proverrà da piante diverse. Pecore e molluschi possono dormire sonni tranquilli, per loro s’apre un eden ignoto pure alle mucche sacre alla tradizione indù, ai maiali intoccabili per i musulmani. A dirlo non è un pincopalla qualunque, l’ennesimo chef d’una nidiata cara al trend vegano, ma nientemeno che uno studio svolto nei maggiori mercati mondiali (Usa, India e Cina) dalla At Kerney. Nome che ai più non dice molto, ma trattandosi della società statunitense di consulenza globale attiva dalla grande crisi del ‘29 – in Italia dal ‘66 – da sempre portatrice del verbo del grande pensiero unico globale, la sua parola è pressoché legge. “L’industria del bestiame – recita la ricerca – è ormai vista come un male inutile. Con i vantaggi della nuova carne rispetto alla produzione convenzionale, la conquista di ampie quote di mercato è solo una questione di tempo”. Vent’anni, appunto.
I vegani gongolano, le macellerie friggono. Le più avvedute già pensano al cambio d’insegna, giù teste di mucca come busti del duce o di Lenin, su una bella piantina dove fioriscono esangui bistecchine. Il pubblico, si sa, ha sempre ragione e i suoi gusti non si discutono. Non passerà molto che il carnivoro impenitente e tradizionalista, il revanscista della fiorentina, sarà additato come un perverso untore al pubblico ludibrio. Costretto a grigliate segrete nell’underground metropolitano o in recessi inaccessibili, al mordi & fuggi con una cotoletta. Ridotto a sfogliare opuscoli d’antan dei supermercati per eccitarsi davanti a una bella bisteccona. Salvo piegarsi al male minore: armarsi di vaso, concime e rastrello e darsi alla coltura di salsicciotti rampicanti.
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