E due. Senza faglie sul pronostico, Helena Janeczek vince il secondo premio letterario dell’anno, il primo del Belpaese. Dopo il Bagutta, lo Strega. Visto che non c’è due senza tre e il suo La ragazza con la Leica è in lizza anche al Campiello, la possibilità di uno storico tris non è irrisoria, per lei. A starle dietro solo Marco Balzano con Resto qui, che non ha bissato il successo di Cognetti dello scorso anno per Einaudi, e, un po’ staccata ma ottimamente piazzata, Sandra Petrignani con La corsara (Neri Pozza). D’Amicis e la Levi si sono accontentati di far bella presenza. Una stampa e una figura, per dirla come Camilleri, del piazzamento in cinquina, a riprova che raramente al ninfeo di Villa Giulia si spariglia quel che esce da casa Bellonci. Tant’è, il resto sono ciance e bruscoli, polemiche di rito senza le quali il premio sarebbe privo di pepe e appannaggio dei soliti noti.
Così non è andata, stavolta. Intanto perché è la prima volta che un editore come Guanda, non di primissimo piano ma comunque il secondo gruppo italiano dopo l’ipercorazzata Mondazzoli-Einaudi, rimasta in secco, vince il premio. Poi perché la Janeczek, tedesca di Baviera ma italiana da oltre trent’anni, è la prima donna a bere dal bottiglione dello Strega, dopo tre lustri. Stupita e imbolsita, ha garganellato il giallo liquore brindando alla sua Gerda, la fotografa sodale e compagna di Robert Capa, senza la quale non avrebbe cantato vittoria sul palco del ninfeo, piroettando nel suo gonnellone arcobaleno. Qualcuno, e qui chiudiamo con le novità, s’è pure ricordato che Villa Giulia è sede del Museo nazionale etrusco, e stavolta a ogni finalista era associato un reperto, per rendere tutto più vetusto e sonnolento.
Sul talento letterario delle lettrice di casa Mondadori, sul suo virare verso la storia e la sua dimensione biografica, pochi hanno dubbi. Qualche dubbio in più viene, scorrendo l’anomala biografia che la Janeczek dedica alla sua conterranea, ebrea tedesca d’origini polacche come l’autrice, e icona della sinistra internazionalista. Gerta Pohorylle – questo il vero nome di Gerda Taro – era un donnino non bellissimo ma assai piacente, dalla personalità sfaccettata e accattivante, leggiadra e impegnata allo stesso tempo. Un’icona libertaria e femminista riscoperta con le sue doti di fotografa negli anni ’90. Quando smise d’essere, per i più, la compagna di Capa – al secolo Endre Friedman, profugo antifascista ebreo come lei – con cui aveva messo insieme una società, a Parigi, frutto d’un sodalizio professionale e sentimentale.
La morte in giovane età – prima fotografa a morire sul campo – con modalità che non avrebbero mancato di suscitare polemiche, travolta da un carro armato amico durante un bombardamento tedesco, resero la sua figura, celebre già in vita, icona della sinistra repubblicana e libertaria. Al funerale parigino c’era una folla immensa, compreso un inconsolabile Capa, oggi la sua tomba è abbandonata a poca distanza dai caduti della Comune. Tutto perduto, tutto dimenticato. La ragazza con la Leica riporta alla luce ombre, fantasmi d’un tempo soppresso, ideale e altro, inesorabilmente altro dal presente. Potrebbe essere definita un’operazione nostalgia quella su Gerda, frutto di un’intellighentsia di sinistra che, espunto ogni filo rosso dall’oggi, guarda ai rivoluzionari di ieri e se ne compiace dall’alto della propria alterità.
Helena racconta vita e morte della sua eroina non come narrazione temporale e lineare ma attraverso i ricordi di due dei suoi amanti, Willy Chardack e Georg Kuritzkes, e di un’amica, Ruth Cerf. Un intreccio narrativo che se da un lato offre sguardi traversi e spunti inediti sulla vita e la personalità di Gerda, dall’altro crea un papocchio a tratti accartocciato su sé stesso. Persino soporifero per una vita come quella di Gerda, davvero da romanzo. Una maggiore linearità non avrebbe guastato, insomma, anche se la storia è vincente e il romanzo convincente. E non c’è miglior viatico dello Strega per convincere il pubblico, oltre i giurati, e portare a casa un bel tris. Anche se i critici lamentano che se ci si butta tanto sulle biografie, sulle vite degli altri, è, al fondo, per mancanza d’idee proprie. Aritant’è.
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