Klimt l’italiano Scrissi d'arte

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Klimt e l’Italia, doppio appuntamento a Roma e Piacenza con l’artista viennese che più di altri seppe incarnare lo spirito del suo tempo e perì di Spagnola con la fine dell’impero asburgico

Magico Klimt. Ogni volta che ci posi lo sguardo, che lo sfiori con mano, t’abbaglia. E non è solo per i suoi quadri musivi, per lo splendore degli ori di Ravenna e Bisanzio trasposti su tela. No. È altro, uno spirito che trascende l’opera, il suo, lo spirito del tempo. Quello che restituiscono i grandi pannelli dove scorrono le vedute della Vienna dei primi del ‘900, all’ingresso. È un’infatuazione, quella dell’Italia per l’artista viennese, che dura da trenta lustri. Analoga a quella che il caposcuola dell’art nouveau e della secessione dall’accademia provò per il Belpaese, finché la guerra mondiale o, come si sarebbe detto, la quarta guerra d’indipendenza contro l’impero austroungarico, non tenne lontano il pittore di Baumgarten dal bel suol d’amore. Ma l’innamoramento di Klimt già era oltre, spinto dal perpetuo moto dell’animo che lo portava a essere in un qualche altrove, sul terreno dell’arte come delle relazioni amorose, mentre da viaggiatore vero rimetteva presto “i suoi quattro stracci” in valigia per tornare pantofolajo a studio. Klimt, la secessione e l’Italia, a cura di Franz Smola, Maria Vittoria Marini Clarelli e Sandra Tretter dà conto di tutto questo, in modo eccellente.

Intanto l’esposizione. Palazzo Braschi a Roma non è il palazzo della Secessione o il Belvedere a Vienna e corso Vittorio non è la Friedrichstrasse, ma ci sta. Poi le opere. Una volta tanto il nome non fa da specchietto per le allodole, la paccottiglia di contorno non prevale sul protagonista. No, qui di Klimt c’è molto, specie disegni e bozzetti – notevole lo schizzo del 1903, la coppia con lei incinta che tutto lascia trasparire fuorché la Speranza del titolo. Ma è proprio di Gustav il gioco degli eccessi. Notevoli, anche, i quadri di Ernst e le cesellature di Georg, due della copiosa famiglia d’artisti, ben sette tra fratelli e sorelle. Notevoli, soprattutto, la prima versione della Giuditta che tiene in mano la testa mozza d’Oloferne e s’offre al visitatore fin sulla locandina e la copertina del catalogo, col suo baluginìo d’intarsi preziosi; il tardo Ritratto di signora trafugato alla galleria Oddi di Piacenza e recuperato dopo un ventennio; la Signora in nero del ‘94, non meno fascinosa, del periodo realista. Ed è a Piacenza che s’aprirà la seconda tappa sul Klimt d’Italia, con la visione di un artista intimo e privato a differenza di quello pubblico in mostra a Roma.

E torniamo all’esposizione romana. Notevoli, ancora, le riproduzioni delle pannellature esposte alla Secessione in occasione dell’omaggio a Beethoven. E qui, davanti alle conturbanti muse e alle mostruosità gorillesche dell’expo’ del 1902 che la mostra giunge all’acme e sull’onda emotiva della Nona del gran compositore vien voglia d’abbracciare la bella giapponese di passaggio cogli occhi mandorlati, sgranati e smarriti, come fosse una delle muse klimtiane. Le modelle che a lui si concedevano senza risparmio, sotto l’occhio neppur troppo malevolo di Emilie Flöge, musa e compagna. Mitico Klimt. Non tanto per la sua arte, la capacità di sfornare capolavori e marmocchi a raffica – ben sei i figli riconosciuti ufficialmente, assai più le donne reclamanti la sua paternità post mortem. Quanto per la capacità d’incarnare la weltanschauung viennese più e meglio d’altri. Quella centralità dell’arte mitteleuropea nel panorama della Belle epoque cui la Grande guerra mise fine, con la dissoluzione degli imperi centrali e del bel mondo. Paradigmatica della fine di un’epoca è la vicenda personale dell’artista, la sua stessa fine. Stroncato dall’epidemia di Spagnola all’inizio di quel 1918 che avrebbe visto il tracollo dell’impero asburgico e del suo mondo, liberty e bohémien. Vittima di una pandemia nata sui campi di battaglia come effetto collaterale dell’uso massiccio dei gas venefici, tra i grandi effetti nefasti del maggior sterminio di massa d’ogni tempo: ben 50 milioni di morti su una popolazione mondiale di 200. I fasti e le bizzarrie di Klimt, lo spirito di un’epoca d’oro frantumata nelle trincee della guerra mondiale finivano così, in un letto d’ospedale, spazzato da un male figlio del suo tempo, prodromo d’altre follie e pandemie coève.

Progetto Klimt, Roma, Palazzo Braschi, fino al 27 marzo 2022; Piacenza, Galleria d’arte moderna Ricci Oddi, dal 5 aprile. Info www.museodiroma.it


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