Ci sono vite che a raccontarle sono romanzi, figurarsi a viverle. E ci sono storie che a dirle (scriverle) non ci si crede, salvo poi riannodare le fila e scoprire che è tutto vero, tutto vissuto. La vita, la storia di Alessandro Kokocinski è una di queste. E mal ne incoglie a chi voglia narrarla, la storia d’una vita vissuta sul filo dello straordinario, funambolo costretto a zigozagare tra l’indicibile e l’incredibile, per approdare a un esito che restituisca veridicità ai giorni vissuti, segnati al fuoco dell’arte. Vita straordinaria di un artista è quasi l’ovvio sottotitolo che Tiziana Gazzini ha posto alla biografia di Kokocinski (Edizioni Clichy, 219 pagine), sottoponendosi al difficile esercizio d’equilibrio. Koko è un personaggio (un artista) d’un altro tempo (secolo, millennio forse), ma pure fuori dal tempo. In lui c’è qualcosa che resiste alle catalogazioni, sfugge ai generi. Così, anche la sua biografia non è veramente tale, ma un accenno a qualcosa di multiforme, d’inafferrabile.
Partiamo dall’uomo, dall’artista o artigiano colto, come lui stesso si definisce. Madre russa e padre polacco, un nonno che cavalcò con Trotskij i venti di fuoco dell’ottobre bolscevico, Koko nasce a Porto Recanati in un campo profughi nel dopoguerra, sopravvivendo in grazia del fato e d’un medico cileno che per fargli passare la nottata consiglia acqua e farina abbrustolita. E già la carezza dell’angelo della morte – lo stesso che sorvola i desaparecidos in una delle sue opere più mastodontiche e nobili – lo sfiora da subito, allenandolo ai triboli che la vita gli darà, con la sua bellezza. La cifra anagrafica, però, è apolide più che italiana. Migrato neonato in Argentina, dove i suoi sperano di (ri)farsi una vita, scampa a un naufragio, passa l’infanzia tra gli indios Guaranì nella foresta amazzonica, e l’adolescenza come acrobata cavallerizzo in un circo girovago russo, dove i suoi l’hanno allocato per dargli un futuro. Poi arriva, con la scoperta della civiltà, la magia del disegno, dell’arte “al servizio del popolo”, nell’Argentina post peronista e nel Cile di Allende.
Ma i tempi sono duri e bui per chi voglia scamparli grazie all’impegno e alla creatività, così Koko – che nel frattempo ha messo su famiglia e avuto la prima figlia, Maya – riattraversa l’oceano grazie a un mecenate italiano per girovagare l’Europa: Amburgo, Londra, Parigi, confrontandosi con la grande arte classica. Infine Roma, dove finisce per stabilirsi e annoda sode relazioni con la comunità artistica e il mercato – sempre standone ai margini – grazie all’amico e sodale Rafael Alberti. L’anziano poeta in fuga, come lui, da un’altra dittatura, quella franchista, che riconosce in quel giovane alto e magro un ragazzo affamato di vita e d’arte, di verità e bellezza, persino, introducendolo nel suo cenacolo trasteverino. L’arte di Koko è questo, segno che si fa scultura, pittura materica che raccoglie e rinnova l’eredità di Goya e Chagall, dando corpo ai fantasmi dell’Occidente – ma anche dell’Oriente, lungamente frequentato – nel tentativo di quietarli.
Koko è un uomo, un artista in fuga persino da sé, pure se dopo tanto girovagare ha trovato casa e bottega a Tuscania, nella Tuscena etrusca. Dividendosi tra una chiesa sconsacrata e un palazzo già vescovile per dare ancora corpo all’arte, ai sogni, anche ora che la vista è andata e i mali s’accaniscono, senza domarla, sulla tempra da combattente. Nel bel libro di Tiziana tutto ciò, passioni e fughe, furori e maestri, sono riportati con tratti che restituiscono leggerezza alla pesantezza d’esistere. Con la grazia della narratrice usa all’arte, dai tempi di Paese Sera alle collaborazioni con la Quadriennale romana. E la passione che tradisce la vicinanza, e l’affetto, che l’autrice nutre verso l’artista. E se tanta delicatezza, a tratti pudicizia, la trattiene dall’eviscerare il personaggio, pure la penna coglie, nelle tappe artistiche e di viaggio, come nelle descrizioni della casa tuscanese – condivisa con Giovanna, sposata nel 2013 – l’essenziale d’una vita e di un’arte fuori dall’ordinario, in inscindibile connubio.
Ché la sintesi, la contemporaneità dell’opera di Kokocinski, per dirla con le parole dell’autrice, «si annida nel suo assoluto non conformismo. Non è conformista proprio perché conserva e nutre il seme della memoria. Non lo rifiuta e lo trasforma. Non è conformista proprio perché non è anticonformista (il conformismo più ingannatore è proprio l’anticonformismo che subito si istituisce come nuovo canone e guai a metterlo in discussione). Non è stato, non è e non sarà mai un artista di tendenza (o di controtendenza). Tendenzioso, sì. Schierato e militante, sempre». Umanissimo e vitale, pure.
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