Cade Assad in un conflitto lampo, dopo un quindicennio di guerra civile. La Siria, sull’orlo della spartizione a tre, tutto sarà fuorché democratica. Gli Usa si terranno i pozzi, Erdogan si sbarazzerà dei curdi, Bibi realizza la Grande Israele. E Mosca resta col cerino spento, mentre l’Iran aspetta il suo turno
Certe volte i proverbi le sparano grosse ma certe altre ci azzeccano proprio. Come in questo caso: chi la dura la vince. Erano tre lustri che, a colpi di primavere arabe e appelli alla democrazia globale, i giusti d’ogni colore e soprattutto quelli di casa a Tel Aviv e Washington l’avevano giurata a Bashar al-Assad. Da domenica, finalmente, il sanguinario despota di Damasco è caduto, la Siria è tornata nell’alveo delle libertà e tutti i sinceri progressisti possono dirsi grati a Dio, o Allah che dir si voglia. Pace a chi resta e potrà darsi finalmente al risorgere alle libertà, in un paese che, tra le sperticate lodi delle democrazie occidentali ai nuovi padroni, tornerà a essere quel regno di Bengodi che un cinquantennio di dittatura Baath aveva reso un tristo regime. Se quel vecchio volpone di Kissinger potesse uscire dalla tomba, sarebbe il primo a congratularsi con sé stesso e i liberatori. Lui l’aveva detto chiaro fin dall’inizio della guerra civile per procura, nel 2011, e ribadito quando russi e iraniani non avevano permesso di scalzare Assad da Damasco, come stavano facendo le spontanee sollevazioni popolari con altri governi nel Medio Oriente. “Credete che le primavere siano per i begli occhi degli arabi? L’unica soluzione per metterla a terra – la Siria, ndr – adesso è bruciarla dall’interno”. C’è voluto un bel po’, ma chi la dura la vince.
Sintomatici del ritrovato sentimento democratico sono gli appelli dei conduttori tv e dei quadri del vecchio regime, alcuni già fedelissimi, passati armi e concetto ai nuovi padroni. Dove spicca, alla testa dei democraticissimi liberatori di Hayat Tahrir al-Sham, filiazione di Al-Qaeda, quell’Abu Mohammad al-Golani, o Al Jolani, sul cui capo pende tuttora una taglia da 10 milioni di dollari – mica bruscolini – quale terrorista islamico, ora convertito sulla via di Damasco, come san Paolo, e annoverato tra i volti nuovi della democrazia. Qualche foto taroccata già lo dà in preghiera sotto al muro del pianto, ma possiamo star certi che tra non molto lo vedremo, novello Zelensky, stringere mani e dar pacche sulle spalle ai bei nomi della democrazia totalitaria, da Von der Layen a Rutte, da Macron a Trump. Tutti troppo occupati all’inaugurazione della risorta Notre Dame, nella nuova veste paraclassica e paramassonica, per vedere ciò che accadeva di domenica sera nel vicino Oriente. Più accorto, neanche il tempo per Assad di darsi alla fuga che già Netanyahu ordinava ai cingolati di Tel Aviv di spingersi oltre le alture del Golan occupate in barba al cosiddetto diritto internazionale, e alle truppe speciali e ai bombardieri d’azzerare la residua capacità militare dell’esercito siriano dalla frontiera del Libano alla Giordania. Sul monte Hermon, a trenta chilometri da Damasco, sventola ora la bandiera con la stella di Davide, tutto il sud del paese è saldamente in mano israeliana e così sarà nei tempi a venire.
Eretz Israel, la grande Israele è un fatto compiuto, dalla Striscia ridotta a tabula rasa al devastato Libano, dal carnajo della Giordania – prossima tappa, se non saprà far tacere i profughi palestinesi che ancora si agitano nei campi – alla martoriata Siria, Sion è ovunque e la sua longa manus può colpire chiunque. Il macellajo di Dio aveva visto giusto a darsi tanto da fare, dopotutto, e ora che la via è sgombra sarà un gioco da ragazzi sbarazzarsi dell’ultimo nemico e aprirsi la via di Teheran. Basterà l’ultima spintarella, ma forse un nemico in ginocchio, da colpire a piacimento, è ancora più utile di uno spacciato per sempre. Intanto Israel Katz, ministro della Difesa, può gongolare: «Abbiamo assestato un colpo formidabile all’asse del male». Ben detto, e soprattutto fatto.
Ma come è stato possibile a una banda di sgarrupati scannapolli, fino a quel momento asserragliati a Idlib e poco oltre, di prendersi in pochi giorni un paese che resisteva da un quindicennio a ogni cospirazione? Che una congerie di poche migliaia di ex terroristi male in arnese, senza armi pesanti e lo straccio d’un carro armato, con poche sgangherate carrette armate di mitragliere e un pugno di droni made in Ucraina abbiano avuto ragione di un esercito malridotto, sì, ma con oltre 270mila uomini, centinaia di carri, cannoni e aerei, forte di migliaia di miliziani di hezbollah e pasdaran e soprattutto dell’appoggio della marina e dell’aviazione russa? Un esercito che si è squagliato dopo i primi scontri, peraltro favorevoli, arrendendosi di fatto senza combattere ai tagliagole inneggianti alla libertà. Per ritrovare un precedente simile dobbiamo sbarcare con Garibaldi a Marsala, risalire la Sicilia e la Calabria per vedere i soldati di Franceschiello filarsela e arrendersi a frotte ai liberatori d’Italia. Dobbiamo accompagnarci a Cadorna alla passeggiata di Porta Pia e vedere gli zuavi francesi sparacchiare un po’, tanto per fare scena, prima di darsela a gambe per le vie di una Roma non più papalina. Cos’è successo, dunque?
Se Bibi s’è pappato il boccone grosso e si prepara a fare una scorpacciata dell’ultima pietanza in terra d’Iran, pure i commensali al banchetto che vedrà la Siria seguire la sorte della Libia, smembrata e sbranata, e i suoi pozzi petroliferi spartiti tra i vincitori, sono diversi. Primo fra tutti Erdogan che, con l’abbraccio a Bibi per schiantare l’asse del male e il dittatorello di Damasco, ha dato inizio ai giochi e spinto i liberatori a fare il colpo grosso. Al Jolani e le sue milizie sono sul suo libro paga, e serviranno a ritagliarsi una bella fetta di Siria ripulendola dai curdi che ancora s’ostinano, nel nord, a resistere ai liberatori. Per loro la fine di Assad rappresenta la caduta dalla padella alla brace; nessuna tregua ma un bel repulisti fino all’eliminazione finale del Rojava e delle sue unità di autodifesa. Non del Kurdistan sotto protettorato Usa, però, che manterrà il controllo – in barba al solito diritto internazionale – sulle aree occupate a est e sud del paese, quelle coi giacimenti petroliferi più ricchi, che già Trump pensava di restituire e invece dovrà suo malgrado tenersi, soprattutto se i pozzi iracheni ancora sotto occupazione torneranno effettivamente al legittimo proprietario entro il prossimo anno, come richiesto dal parlamento di Baghdad. Dai campi statunitensi in Siria sono partiti i raid che hanno spazzato i rinforzi in arrivo dall’Iraq per il regime, prima che cadesse, e qualcosa si dovrà pur avere in cambio. Poi vuoi negare la soddisfazione di un altro paletto messo in quel posto a Trump sulla via di Washington? Gestire l’eredità venefica di Biden sarà sempre più difficile. Ma neanche il balletto a tre tra Bibi, il gran visir e il morto che cammina alla Casa Bianca ha fatto schiantare Assad in un fiat. C’è voluto altro. Un quarto, maldestro danzatore.
All’inizio delle operazioni su Aleppo, a fine novembre, i jet russi di stanza a Latakia hanno bombardato i ribelli per contenerne l’avanzata. Poi più niente. L’unico aereo russo a levarsi in volo è stato quello che ha portato Assad e famigli a Mosca, spinto dai suoi protettori – il comunicato russo parla di “pace inclusiva”, magica parolina dei tempi nuovi entrata persino nel gergo militare – mentre Egitto e Giordania avevano addirittura consigliato al despota di formare un governo in esilio. Povero Bashar, lui che voleva fare l’oculista e per quel sogno aveva il fisico e tanto studiato a Londra, e mai si sarebbe sognato di darsi alla politica e tantomeno al governo, se il fratello maggiore, Basil, non fosse perito nel più classico accidente stradale dei servizi e il padre Hafiz, artefice della dinastia, non fosse morto d’infarto. Povero Bashar, che per non perire s’è grappato ai soli che potessero salvarlo, i russi, e alla fine s’è dimostrato savio quanto uno dei ciechi di Bruegel. Si vocifera che in cambio della sua pellaccia e della Siria Mosca abbia messo sul piatto della bilancia nientemeno che il guitto Zelensky, che alle prossime elezioni – prima o poi si faranno – ci lascerà le penne e dovrà passare la mano a qualcuno in grado di fare la pace in una guerra che non si vince. Povero Assad, che in arabo significa leone e ha fatto la fine del gatto mammone. E povera Siria, soprattutto, ora più che mai.
Che il conflitto nel paese rappresenti la saldatura tra le guerre in corso, in Medio oriente e in Europa, è chiaro in campo e fuori. Sul terreno, perché servizi e reparti speciali ucraini si sono dati un bel po’ da fare, coi droni e i volontari, sotto l’occhio vigile dei turchi, per dare una mano alle milizie jihadiste, mentre russi, hezbollah e pasdaran erano in altre faccende affaccendati e sotto botta. Se così fosse, e forse è, Putin – non a caso elogiato da Erdogan per quanto ha fatto – ha commesso un doppio sbaglio, più grosso ancora dello scatenare una guerra che non è stato in grado di vincere. Può forse garantirsi la pace sul fronte orientale e, chissà, i tre ballerini gli lasceranno pure il contentino della base nel Mediterraneo orientale, per quel che vale. Ma i suoi alleati, dall’Iran alla Cina, vera posta in gioco della guerra che verrà, sanno che dei russi c’è poco da fidarsi, pronti come sono a mollare l’arrosto per il biscottino. Vada come vada, l’Occidente ha preso due grassi piccioni con la classica favetta: fatto fuori un feroce dittatore mentre l’altro è lì che aspetta il suo turno. I dittatori, si sa, sono come le mele: alcuni marci e altri tanto utili da levare il medico di torno. I media mainstream possono sbizzarrirsi a mostrare gli orribili carceri del despota caduto e tessere lodi del nuovo che avanza. Poi, quando si vedrà che hanno suonato il piffero dalla parte sbagliata, sarà tardi ma poco importa. La libertà, come recita quello spot, non ha prezzo e loro, come chi sta dalla parte giusta, non pagheranno mai il conto.
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