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Il realismo poetico di L’uomo d’argilla, quando l’amore incontra l’arte e insieme spostano la vita
Cosa chiedete a un film francese? Beh, stile, anzitutto. Poi originalità, un tocco di follia e un pizzico di raffinatezza. Se l’immagini così un film d’Oltralpe allora non puoi perderti L’uomo d’argilla (l’homme d’argile), dal 13 febbraio nelle sale italiane, distribuito dalla Satine film. Presentata alla mostra del cinema di Venezia e all’ambasciata di Francia alla presenza del protagonista, Raphaël Thiéry, l’opera prima di Anaïs Tellenne ha tutto questo e qualcosa in più. Un duplice filo rosso, intreccio di musica e d’arte, per portare a dama un’opera che strappa sorrisi applausi e persino lacrime, riflessioni emozioni come solo l’amore e, ancora, l’arte sanno dare nella vita reale, quando non è gran fuffa. E piuttosto reale è la vicenda incarnata sulle scene, come nella vita, da Thiéry, narrata con un’accorta mistura di soavità e realtà – realismo poetico, potrebbe dirsi – dalla regista, presente all’anteprima in video dalla cucina di casa, con tanto di pancione in mostra. Ma andiamo all’Homme.
L’uomo, anzi l’omaccione, è Raphaël, che nella finzione porta lo stesso nome della vita reale, con un occhio in meno e la medesima passione per la musica celtica, tra i punti di forza del film. Guercio e non proprio un adone, Raphaël vive in una bella casetta a ridosso d’un vetusto maniero che ha visto glorie e tempi migliori ma ancora benmesso; uno di quei castelli di cui sono zeppe le campagne d’Italia e di Francia, in questo caso di Borgogna. Sovrastato dall’anziana madre – l’attrice non professionista Mireille Pitot, giunta alla bella età di 92 anni a calcare le scene – Raphaël si prende cura tanto del castello che della vecchia genitrice di cui subisce, assieme all’affetto, anche gli sfoghi e le contumelie. La sua vita, piuttosto monotona, è allietata dalla postina del paese, Samia (Marie-Christine Orry) che non perde occasione, tra una lettera e un pacco, d’infrattarsi con l’omaccione dando sfogo alle sue bizzarrie sessuali. Anche mamma Lucienne è omaggiata dalla portalettere, con un cadeau che, all’inizio del film, ne disvela la trama: un piccolo golem riportato da Praga. Altro suo diletto è la cornamusa, che suona con maestrìa nella banda del paese e nella piscina vuota del castello. Per inciso, il nome del gruppo è un vecchio album del gruppo in cui il vero Thiéry suonava: Faubourg de Boignard.
Il tranquillo trantran a base di trappole esplosive per le talpe che infestano il parco, serate passate davanti al televisore con la vecchia madre, prove d’orchestra e porcate nei boschi è interrotto dall’arrivo improvviso dell’ultima erede dei nobili proprietari del maniero, Garance Chaptel (Emmanuelle Devos), artista d’una certa fama e donna dotata d’un certo fascino e d’una notevole strambèria, come si conviene a chi accompagna al genio la sregolatezza, secondo la maniera artistica. L’arrivo di Garance in una notte di tregenda, tra scrosci di pioggia e saette, gettano Raphaël in una dimensione altra, affatto nuova per lui che, per prima cosa, deve salvarla da un tentativo di suicidio.
L’omone pratico e scontroso, a suo modo sensibilissimo, è costretto a misurarsi giorno per giorno con le stranezze della padrona, venendone poco a poco conquistato e conquistandola. È, per lui, la scoperta d’una realtà e d’un sentimento nuovi che lo spostano letteralmente in una dimensione più vera, trascinandolo nel dolore, ma anche nella bellezza del mondo che finora ha sfiorato senza possedere. Raphaël perde tutto quello che ha, le sue (in)certezze, ma conquista una dimensione nuova, appagante come solo l’amore e forse l’arte sanno dare in vita. Una felicità presto interrotta dal ritorno alla normalità, sconquassato da quanto ha vissuto ma più consapevole di sé e del mondo d’intorno, del suo essere. Così l’uomo d’argilla, il golem rinasce, viene a nuova vita, anzi alla vita, come nell’Odile di Queneau.
L’opera prima sconta, da prima qual è, qualche battuta a vuoto, qualche pausa e campo lungo di troppo, ma è un piccolo gioiello. A tratti commovente e soprattutto originale, senza voli pindarici e dialoghi sui massimi sistemi ma zeppa di poetico realismo, come detto, intimista senza essere ombelicale; persino priva di cedimenti a cliché, anzi a suo modo politicamente scorretta, bontà sua, che in tempi di bieco conformismo è già tanto, anzi moltissimo. Perciò fatevi un favore: non perdetevelo, anche se a un film francese chiedete altro.
Sopra: Thiéry all’anteprima all’ambasciata di Francia tra gli amici dell’accademia Angelico Costantiniana
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