Note a margine del dibattito sulla cancellazione dell’insegnamento della storia
La storia siamo noi, cantava quel tale. Siamo noi finiti in un fosso, a spararci addosso, ma a salve, perennemente in bilico tra guelfi e ghibellini, Carole sì, Carole no. Era d’aprile quando un trio di letterati: uno storico (Andrea Giardina), una senatrice (Liliana Segre) e uno scrittore (Andrea Camilleri, buonanima), si appellavano al ministro del vil governo gialloverde perché non si cancelli lo studio della storia, fondamentale alle patrie fortune. All’appello, veicolato dall’organo di vigilanza della Matrix europeista di rito pieddino che risponde al nome di Repubblica – sì, proprio il quotidiano fondato coi soldi della Cia per mettere un freno alla stampa rossa e oggi, nemesi della storia, annoverato tra i giornali “di sinistra” – rispondono oltre un migliajo di firmatari. Storici e intellettuali della più bell’acqua. Nessuno tocchi la storia, magistra vitae eccetera.
Avendo fin da piccino un’insana passione per la medesima, contratta a dosi massicce di battaglie di soldatini sui campi paterni eppoi coltivata, viavia, sugli scaffali d’una biblioteca storica alimentata con migliaja di volumi; avendo perdurato nell’insana passione con una laurea in storia, divulgandola su articoli e saggi; avendola, buon ultimo, addirittura insegnata in un istituto scolastico, dico la mia a bocce ferme e prove di storia alla maturità (s)cancellate.
Cominciamo dalla fine: l’insegnamento della storia. Che si tratti d’istituti professionali o atenei, scuole pubbliche o private poco importa, il maremagno in cui naviga il barchino della storia è lo stesso. Ragazzi che se la ridono se chiedete quali libri abbiano letto – giornali manco a parlarne, per quel che valgono. Neanche più la televisione vedono, qualche filmatino online, ma breve eh, tipo videogiochi, ché davanti a un film o a un documentario s’addormono. Sempre coi cellulari accesi, vieppiù a lezione, e i cervelli spenti. Come ogni under 70, del resto. A ragazzi così, venuti dai quattro angoli del globo e dal suburbio della periferia, immenso nulla urbanizzato, nativi digitali per i quali la guerra del Vietnam ha la stessa valenza e distanza delle guerre puniche, voi che di mestiere fate i divulgatori (formatori?) dovete insegnare la storia. Uno spasso.
Partiamo dai libri. Testi che parlano d’Achille, d’Enea e d’Odisseo, classici del canone occidentale, capisaldi del pensiero giudaico cristiano. Opere che narrano le vicende – reali più che mitiche, come Schliemann e dopo di lui Strauss hanno dimostrato – d’una masnada di predoni Achei come portatori di civiltà. Il maggiore evento bellico dell’età del bronzo, la guerra di Wilusa, Ilio o Troia che dir si voglia, madre di ogni conflitto e impostura. Enea e Ulisse, traditori e cialtroni matricolati, idealizzati in eroi indomiti, fondatori di civiltà dove la rapina, non l’impegno; la sopraffazione, non la condivisione, sono ideali fondanti. E non è un discorso di genere, ché sotto le mura di Troia combatterono pure le amazzoni. Quelle vere.
Saltiamo i millenni, risparmiamoci guerre di civiltà e di religione, conquiste e miti del progresso e della tecnologia, arriviamo all’oggi. A libri che narrano il conflitto di classe come motore della storia o, peggio, di fine della storia non essendoci più classi in conflitto. Ripulite gli scaffali, questi libri fanno solo polvere. La storia è andata oltre e i ragazzi degli anni Zero lo sanno. Lo sentono, come le bestie fiutano odori che non percepiamo. Non gliene può fregare di meno e hanno ragione, la storia che raccontano questi libri è come quella d’un vecchio rincitrullito che si parla addosso e non ascolta più nessuno, sempre la stessa e sballata.
Allora questi libri è meglio levarli di mezzo, come i compiti. Optare per una qualche storia comparata, ché la storia eurocentrica ha fatto il suo tempo e di quella nazionale è meglio tacere, dare spazio alla contemporaneità e al futuro. Potete portare ogni deficienza alla sufficienza piena, salvo vederla regredire in un fiat. Ché l’altro aspetto del cambiamento genetico in atto è una soglia d’attenzione minimale – ancora prima dell’era tecnologica era di qualche minuto – e una soglia di connettività regredita al neanderthaliano. Nessuna capacità mnemonica. Uno spasso. Potete passare nottate a rielaborare schede e dispense che non leggeranno né capiranno. Mappe concettuali per dislessici – molti hanno una qualche disfunzione cognitiva o comportamentale, fa tendenza come il transgender – che dopo un po’ vi fanno guardare con un misto di sospetto e repulsione i libri accatastati in casa, sognare quel che il poverocristo di Degan fece nel capolavoro di Olmi, Centochiodi: tirarli giù dagli scaffali e inchiodarli a terra, non servono più e manco fanno curricula. Dalla cliofilia si è passati alla cliorrea, per dirla come l’ottimo Rossano Pisano.
Insomma, la faccenda della storia ricorda un po’ quella dell’euro. Il problema non è la lira, il dollaro o il tallero, ma una moneta non sottratta al controllo pubblico, cioè d’uno stato sovrano, piuttosto che a gruppi di strapotere finanziario privati, al turbocapitalismo globale nel suo stato terminale, qual è quello che spadroneggia in questa fase storica in Europa e oltre. Il problema è cosa insegnare prima che come, non menarsela con i blabla. Uscire da letture e visioni stereotipate, eurocentriche. Anche la chiesa, eleggendo papa Bergoglio, ha mostrato come il presente, tantomeno il futuro, non sia più di casa più in Europa. Uscire dalla grande narrazione della storia ufficiale. Disinfestarsi dalla peste ideologica del secolo passato, l’ideologia qualesia, e guardare al nuovo che avanza. O meglio arretra. Per capirlo, prima di abbracciarlo o avversarlo.
Azzardo: due tendenze sono sopravvissute al Novecento, secolo dei totalitarismi spazzati nel nome del profitto. Neppure il marxismo, o comunismo che dir si voglia, se non nella sua variante statale sinocapitalista, e nei suoi cascami di nicchia, ininfluenti. A malapena vivacchia il materialismo storico di cui è il portato politico, come insegnavano storici quali Hobsbawm e Ginsborg, Anderson e Romano, numi tutelari. Entrambi i fenomeni, antichi e davvero globali, hanno dato la stura alla prima religione rivelata, cioè profetizzata: lo zoroastrismo, di cui il cristianesimo è sintesi occidentale, mediata attraverso il giudaismo da Paolo di Tarso.
La prima è vecchia come il cucco. Popolazioni nomadi in armi, masse trasmigranti da un continente all’altro, hanno abbattuto antichi imperi, da un capo all’altro del globo, dalla Cina a Roma, che parevano e si sentivano immortali. Ci sono voluti secoli perché si ricomponesse il tessuto sociale, artistico, culturale, messo in crisi da quel disastro globale. Si è dovuti giungere al Duecento perché un mastro pintore, Giotto, abbozzasse la figura come ai tempi di Roma. Il nostro presente, e soprattutto il futuro, sarà caratterizzato dalle medesime migranze e (con)fusioni. Una storia vecchia come il mondo, appunto. Popolazioni nomadi contro popoli sedentari. Con la differenza che, stavolta per la prima volta, il pensiero dominante non osteggia ma favorisce tale penetrazione con ragioni etiche. Una mercificazione umanitaria.
L’altra è una relativa novità. Alla metà del Novecento, dopo il Secondo conflitto mondiale, nell’indifferenza se non nel giubilo generale s’è dissolta la civiltà contadina, ovunque nel mondo e in particolare nel vecchio mondo. Al portatore d’aratro e di spada s’è sostituito l’omino industriale & digitale, parafrasando Baricco. All’attività primaria, dominante per millenni, che ha determinato le forme di proprietà, produzione e cultura per ottomila anni, si sono susseguiti per pochi decenni attività secondarie e terziarie, industria e servizi, a loro volta in crisi e in via di superamento dalla rivoluzione industriale prossima ventura. La nona, per dirla come Attali. Come la nona porta, oltre la quale c’è il male assoluto, o il nulla. Altro oltre l’umano.
La robotica, lungi dall’essere la liberazione universale che permetterà all’uomo di sottrarsi all’alienazione del lavoro, rappresenterà per la stragrande maggioranza della popolazione occidentale la semplice espulsione da ogni lavoro possibile, riducendola alla peregrinazione verso occupazioni saltuarie, di mera sussistenza. Dove il reddito di cittadinanza sarà una necessità, non un tema di dibattito come la cancellazione dell’insegnamento della storia. Anche la famiglia, la più grave tragedia che ha colto l’umanità dalla distruzione d’Atlantide, o quel che ne resta, sarà spazzata via dall’etica nomadista e transgender, funzionale al nuovo ordine mondiale. Mai più diritti sociali, bastino i diritti civili a rendere liberi e precari, a vita.
Il luminoso quadretto non sarebbe completo se non s’approntasse una bella guerra per espungere le masse da un mercato che può farne a meno. All’orizzonte ottico ve ne sono d’infinite, prodromiche al confronto tra l’impero del bene nordamericano e i sempiterni babau d’Occidente, Russia e Cina. Gli strateghi vedono come data cardine la metà del XXI secolo – per la Seconda guerra mondiale era il ‘42, l’Asse si fece fregare anticipando le mosse di pochi anni – e ci siamo.
Una bella guerra mondiale – chiamatela terza, se volete – spazzerà via di tutti un po’, dando presumibilmente vita a un mondo multipolare dove l’impero nordamericano non sarà che uno dei tanti scatafasci d’una storia a perdere. La storia, rieccola. In questo vademecum del presente, breve storia del futuro dove la speranza è riposta nella fede, e peggio per chi non la tiene, chi dovrà raccontarla o insegnarla a generazioni bruciate ai blocchi di partenza dovrà rappezzarsi tra cumuli di cadaveri e di menzogne, sogni e speranze in cenere. Soprattutto, dovrà interpretarla fuori dalle visioni di comodo delle narrazioni ufficiali. Altrimenti è meglio fare come gli Etruschi: non ricordare niente, tanto si è condannati all’oblìo e agli stessi errori lo stesso. Ma nel si salvi chi può a venire bisognerà pure che qualcuno, qualcosa si salvi. Anche perché la storia fa larghi giri ma poi torna al punto d’origine, come ben sanno a Oriente. Intanto continuiamo a spararci addosso, ma rigorosamente a salve, a colpi di caroline e gretine, in attesa dell’Apocalisse. Che, come dice il termine greco, significa rinascita, non fine.
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