La tana dei configli Le parole sono pietre
Monica Cirinnà. sopra: Ferdinand Hodler, L’eletto, 1903

Monica Cirinnà. sopra: Ferdinand Hodler, L’eletto, 1903

Ci mancava solo la Crusca col suo comunicato numero cinque – pure l’accademia dei linguisti comunica coi comunicati, manco fossero brigatisti vecchia maniera – sul tormentoso percorso dello stepchild adoption, chiedendo che si sostituisca con l’italico adozione del configlio. Non bastava l’anglicismo, usato come d’uso per intorbidare le acque, né l’arcaico figlioccio o figliastro, che ai neolinguisti e ai talebani del politicamente corretto deve apparire altamente offensivo, al pari di negro o frocio. No, nella riscrittura dell’ovvio configlio è meglio, eppoi fa rima con coniglio. Fuor di semantica, l’adozione del figlio del partner resta la pietra d’inciampo più grossa nel tormentone parlamentare sulle unioni civili, in via di affossamento dopo lo slittamento dovuto al ripensamento – scusate la cacofonia, è voluta – ai piani alti del Pd che ne è main sponsor. Una sconfessione, mutatis mutandis, che ricorda un po’ l’affaire Marino a Roma, o l’imperativo categorico dei neodiccì di sempre, dall’apostolo Pietro in qua: primum, rinnegare.

Un ripensamento che ha provocato l’ira funesta di madama Lgbt, alias Monica Cirinnà. I romani, al solito smagati, l’avevano soprannominata la gattara, quando si occupava dei diritti di cani e gatti tra i ruderi dell’Urbe. Chissà come sarà ribattezzata la corifèa del movimento lesbo, gay, bisex e transgender, se il disegno di legge sulle unioni civili di cui è prima firmataria dovesse infine spuntarla e lei passerà alla storia come chi ha messo una pietra miliare sulla via ai diritti di tutti, o aperto una falla nel diritto di natura. Finora la senatrice – scuola dalle suore e una vita tra i Verdi, prima di passare col Pd e giungere buona ottava alle scorse primarie capitoline, davanti al sindaco in pectore Roberto Giachetti, sposa di Esterino Montino, sindaco di Fiumicino, già tra i patriarchi del Pd romano – dei nomi non si cura, tirando dritta anche dopo il monito della santa sede: non equiparare le unioni gay al matrimonio. Ma se il paletto papale è un altolà che neppure Renzi e i suoi possono superare in scioltezza, la partita si fa difficile, dopo il voltafaccia renziano e la marcia indietro dei grillini.

Alchimie politiche a parte, il dibattito sulle unioni civili che riempie le piazze di famiglie arcobaleno, al grido Svegliatitalia, o in bianco & nero al Family day, riapre in Italia vecchie fratture ideologiche, riportandola ai tempi della lotta per altri diritti contestati, quali il divorzio e l’aborto. Da un lato la chiesa, che fa il suo mestiere, ribadisce il ruolo della famiglia naturale, sottolineando come i figli non siano un diritto. Dall’altro sigle e partiti compattati in nome della normalità dell’alterità. Una battaglia che nel nostro paese riguarda, secondo l’Istat, circa 7.500 coppie con 500 figli, in termini percentuali lo 0,0005 a fronte del 95,5% delle coppie tradizionali. Cifre risibili, su cui si battaglia assai più che su diritti negati quali il lavoro, la sanità, l’abitazione. Numeri a parte, rivendicare una genitorialità senza padri né madri definiti, e il cancan mediatico a supporto, è indicativo di un mutamento sociale epocale che in poco tempo ha portato il diverso da soggetto socialmente sbeffeggiato a benemerito di una cultura egemone, anche se non maggioritaria. Lo iato tra ciò che natura dispone e quel che gli umani pretendono cambiare appare insanabile e l’Italia si ritrova in una guerra per i principi dove la confusione è tanta e il buon senso manca.

Tempo fa, a un dibattito in una scuola della periferia romana, Marco Marsullo, giovane rampante della scuderia Einaudi, ha sollevato ovazioni sposando la causa gay sulle unioni civili, là dove una decina d’anni fa sarebbe stato subissato dai vaffa (gli stessi del vaffa day gay). Un segno dei tempi minimo, minimale rispetto ai lustrini a Sanremo. Forse un progresso, ma indice di un neoconformismo di segno opposto all’altro che porta le stimmate dell’omofobia. Della maggioranza che fino a ieri considerava i gay peccatori impenitenti, anomalie da dileggiare e mazzolare alla prima occasione. Restiamo in campo letterario. Non siamo noi che diamo la vita ai figli, ma è la vita che si trasmette attraverso di noi, scriveva Ferdinando Camon. E un altro maggiore della nostra letteratura, lo scomparso Sebastiano Vassalli, irrideva ai piastrellatori del mondo che pretendono normare e pulire ogni angolo di vissuto, al pari d’un cesso svizzero. Uno scrittore non ancora maestro come i due succitati e non sospetto d’antipatie gay qual è Adriano Angelini, scrive: il ddl Cirinnà è una follia giuridica. Una gabbia statalista che non lascia possibilità né agli omosessuali né agli eterosessuali di vivere liberamente le proprie relazioni affettive. Ecco, il punto è tutto qui, fuori da ogni falso moralismo e finta liberazione sessuale.

Negli affari di fede e di letto nessuno dovrebbe mettere becco, tantomeno lo stato. O la chiesa (che questa, una casta di non ammogliati, pontifichi in tema di famiglia è uno dei tanti paradossi del mondo). La voglia di figli & famiglia, in una parola di normalità, che ha colto chi dovrebbe vivere alla larga da convenzioni e pattuizioni, è sorprendente e deprimente quanto chi spaccia bisogni minoritari per battaglie di civiltà. Ma forse è nella vocazione minoritaria e rinunciataria di certa sinistra farsi portabandiera degli scapricciamenti d’ogni minoranza piuttosto che battersi con altrettanta caparbietà per i diritti universalmente negati. Quali, tanto per ripetersi, il lavoro, l’abitazione, l’istruzione, la salute. O, per stare in tema, l’adozione di bambini – quelli abbandonati nelle sale parto degli ospedali o, peggio, nei cassonetti, ad esempio – senza dover aspettare una vita o rimetterci un patrimonio. Ma questa (pseudo) sinistra non legge più Gramsci e la sua lezione sull’egemonia, considera Unisex del duo Marletta e Perucchietti non pagine sui poteri forti che patrocinano il global gender su cui meditare, ma da bruciare sul rogo come hanno fatto al povero Giordano Bruno e ai suoi scritti quegli altri. Echi di stalinismo concettuale perturbano quanti accusano chi dissente d’essere un omofobo reazionario e oscurantista. Ma abbassare la bandiera rossa per levare quella arcobaleno, riempirsi la bocca di pseudo diritti per non curarsi dei diritti primari non salva dalla miseria intellettuale e pochezza umana gli accusatori.

La famiglia com’è non è certo uno spot del Mulino Bianco, spesso è una tragedia per vasta parte dell’umanità. E non lo è per le vessazioni e gli omicidi – meglio questo del termine femminicidi in voga, ché anche qui parliamo di persone, prima che di generi – costanti. No, la tragedia è nel lento uccidersi e morire tra quattro pareti d’ogni umana vivacità e relazione degna di questo nome. È una tragedia dovuta a una condizione di prossimità che riguarda ognuno, a Oriente e Occidente, e da cui non ci si salva appiccicandosi l’etichetta lgtb addosso. Neppure con l’amore, ché questo quando c’è poco a poco si spegne, gay o etero che sia, tramutandosi in odio. Tranne rare eccezioni spesso confuse con l’abitudine al vuoto relazionale. La famiglia tradizionale è la più alta forma tragica dell’umano convivere. La vita è una molto triste buffoneria, diceva Pirandello, altro insuperato maestro di vita e letteratura (ma la vita è meglio viverla che scriverla, soleva ripetere). Parafrasandolo, la famiglia è una molto triste necessità. Già quella naturale è una tragedia per l’umanità, perché sostituirla con una tana di configli? Per questo, altro è forse meglio non avere per non perdere la poca umanità residua, in un tempo in cui la norma non è più la regola e l’umano fatica a (r)esistere.


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