Da piccolino era talmente bellino da essere soprannominato petit bijou, gioiellino. Nessuno avrebbe immaginato per quel bel bimbetto, di nobili natali – era figlio di conti – e ottime speranze, il destino che andava maturando. E che cattivo destino avere un destino, avrebbe detto la buonanima di Morando Morandini. Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa (1864-1901), più brevemente Henri de Toulouse-Lautrec, il suo destino lo trovò a 14 anni, rompendosi una gamba sul parquet di casa. L’anno dopo si ruppe l’altra cadendo in un fossato – era evidentemente piuttosto vivace, oltre che bellino – e la frittata fu fatta. Affetto da una certa malattia che avrebbe preso il suo nome e ne impedì la ricrescita, rimase segnato a vita da quella doppia caduta che lo rese, di fatto, invalido permanente ma lo elevò, in qualche modo, nell’empireo dell’arte.
Il tappetto, come veniva chiamato da critici e amici, si dette all’accademia e alla carriera artistica prima di darsi ai bordelli e all’alcol che lo portarono alla morte alla bella età di neanche 37 anni. Regalando così al finale del XIX secolo uno dei più brillanti e avanzati interpreti del suo tempo, e a sé chiara fama, giunta ai posteri. Chi non ha mai almeno intravisto, infatti, il suo iconico gatto nero o le lascive sgambate delle ballerine del Moulin Rouge, dei caffè chantant che dettero alla ville lumière consapevolezza della propria mondanità? Una levità austera, certo, in qualche modo pagliaccesca e triste, velata da un’aura di grottesca malinconia. Come si conveniva a quel tappetto gran frequentatore dei casinò parigini che rese famosi nelle sue opere e da cui rimediò la sifilide che lo condusse alla tomba. Ma più che la pittura è l’opera grafica di Toulouse Lautrec a lasciare il segno, con un’attualità nel tratto e dalle modalità seriali in qualche modo anticipatrice della factory di warholiana memoria. Dal basso della sua statura Toulouse-Lautrec seppe giganteggiare non solo con la pittura di matrice impressionista e dagli esiti espressionisti ma attraverso il disegno, pregno di modernità.
Con circa 170 lavori provenienti dal Museo di Belle arti di Budapest, le grafiche di Htl, come il pittore siglava le sue litografie, arrivano al Museo dell’Ara Pacis di Roma per raccontare la Parigi fin de siècle: manifesti, illustrazioni, copertine di spartiti e locandine, tra cui grandi affiche e copertine della cantante Yvette Guilbert. Curata da Zsuzsa Gonda e Kata Bodor, l’esposizione romana ripercorre la carriera dell’artista dal finire dell’‘800 agli albori del XX secolo, poco prima della morte, alcolizzato e debilitato nel corpo e nello spirito. Un corpus di opere tutto sommato non secondarie, quelle che lasciano le sponde del Danubio per le rive del Tevere. Anche se suona strano vederle nel catafalco ridisegnato da Maier per l’ara che avrebbe dovuto celebrare i fasti della pax augustea, in un tempo e in luogo preda dei guasti e dei terrori della modernità.
Ma forse questa è una contraddizione che non sarebbe spiaciuta al figlio di conti bohémien, gioiellino marcito dalla vita in una sedicente Belle époque che avrebbe conosciuto gli orrori della Grande guerra. Al punto che per lui, e noi, può darsi quella sorta di epitaffio scritto da Edmond Lepelletier sull’Echo de Paris il 20 marzo 1890, titolato non a caso Il segreto della felicità: “Abbiamo torto di compiangere Lautrec; dovremmo invidiarlo… Il solo luogo dove si possa trovare la felicità è ormai una cella di manicomio. Lautrec meritava davvero, dopo aver dato evidente prova d’una semifollia nella quale si dibatteva come la maggior parte degli uomini, di godere infine dell’annullamento divino della pazzia completa”.
Tolouse-Lautrec, Roma, Museo dell’Ara Pacis, fino all’8/5/16, info www.arapacis.it.
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