Aveva sette vite – privilegio che un tempo s’accordava ai gatti – ma alla fine anche l’ultima l’ha lasciato. Con una operazione d’intelligence lampo e poca gloria, come il suo predecessore. Quel Bin Laden passato alla storia per essere stato l’unico umano a telecomandare aerei da una grotta in Afghanistan, mica come i comuni mortali che non riescono a prendere la linea a due passi dal wireless. Abu Bakr al Baghdadi è morto, un commando Usa ha fatto fuori il gran capo dello stato islamico, proprio come Osama Bin Laden in Pakistan. Mica come l’ultima volta ch’era stato dato per morto e invece era scappato in motoretta sulle pietraje afghane. Altri dicono che s’è fatto esplodere con tanto di mogli e figli, nel mezzo dell’operazione “Fonte di pace” nella safe zone in Siria, col beneplacito di Erdogan e la fattiva collaborazione turca. Insomma, Al Baghdadi ci ha lasciati.
Ad annunciarne la morte il faccione rubicondo di Trump, verace quanto un piazzista a Porta Portese, tra i sorrisetti sui volti non meno rubizzi dei generaloni russi in Siria, all’annuncio del raid di cui non hanno visto nulla sui radar – la zona è sotto il loro controllo aereo – anzi dicono che il califfo gode di buona salute in Iraq. Comunque, tengono a precisare, la nuova non cambia d’una virgola schieramenti e rapporti di forze in campo. Vale a dire una mezza vittoria siro-russa, con la tregua imposta a Erdogan dopo aver conquistato quello che c’era da conquistare, nel silenzio d’Europa. Mentre gli americani e i loro sodali anglofrancesi si sono riposizionati nel nordest, in barba a qualunque declamato ritiro, a presidio dei giacimenti di gas e petrolio siriani, senza alcun mandato Onu e senza i quali Assad non potrà far risorgere la Siria dalle sue macerie. Deve contentarsi, per ora, d’aver ripreso una bella fetta di deserto a est dell’Eufrate, lasciando il nord alle milizie arabe filoturche e l’est ai curdi già filoamericani e antiamericani, che hanno ingojato l’amaro calice di riavere Assad tra i piedi per non vedersi spazzare via dai turchi. Una spartizione dove ognuno guadagna qualcosina, chi vivrà vedrà. Ma torniamo alle sette vite del califfo.
Cosa ci facesse Baghdadi a Barisha, sperduto villaggetto siriano a pochi chilometri dal confine turco, in un’area controllata dai militari di Ankara, è questione oziosa, visti gli ottimi affari intrattenuti dal sultano e famigli con l’Isis, prima che i russi facessero saltare un po’ d’autobotti e i traffici. Sorvoliamo sul tempismo dell’annunciata morte, giunta come il cacio sui maccheroni a riequilibrare il voltafaccia Usa. Lo strombazzato ritiro dall’area per consentire ai turchi di fare tabula rasa delle risorse siriane e delle velleità curde. Sorvoliamo pure sulla capziosa domanda se il successore di Al-Baghdadi sia quell’Abdullah Qardash, già armigero di Saddam, indicato dallo stesso califfo quale suo erede e su cui Trump ha messo una bella taglia. Oppure quell’Al-Badry che ha fatto da passacarte al senatore McCain nel suo viaggio in Siria nel maggio 2013, seduto assieme al desco dello stesso Baghdadi, nemico mortale degli Usa. Istruito a dovere, come lui, nelle famigerate prigioni di Camp Bucca, dove gli Usa hanno selezionato il meglio dei loro califfi. Una sorta di West Point d’Oriente.
L’unica vera questione, la domanda delle domande, è: ma davvero Baghdadi è stato fatto morire come un cane, come s’è vantato Trump, o piuttosto per lui è pronta una bella carta verde, un permesso di soggiorno permanente e una solida pensione di guerra del paese che ha così (ingloriosamente) servito? Comunque sia siatene certi, appena il tempo di cambiare gli attori, smontare i fondali, che un nuovo cattivo già s’appressa. Poveri gatti, con solo sette vite.
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