Diciamolo subito: Loveless è un gran film, durissimo e bellissimo, e se l’avete perso è un gran peccato. Andrej Zvjagincev (o Zvyagintsev, se scopiazzate la traslitterazione anglosassone) si conferma regista puro e duro, e bene ha fatto la giuria dei Golden globe a premiarlo per il suo ultimo lavoro, Neljubov (senza amore, appunto), come già il suo precedente Leviathan, nel 2015. Quel Leviatano con cui il regista siberiano ha mostrato il volto della nuova Russia, facendo inalberare patriarchi e potenti che l’hanno tacciato di fare film antirussi per compiacere l’Occidente, minacciandolo di tagliargli i fondi. Tant’è, Zvjagincev è un astro della ritrovata cinematografia russa, già dal brillante e controverso esordio con Il ritorno, Orso d’oro a Venezia nel 2003.
Come e più che nei suoi precedenti lavori, Loveless racconta un’umanità dolente che è russa ma al tempo stesso universale. Dove al macrocosmo della lotta impari tra l’individuo e il sistema, lo stato, si sostituisce il microcosmo della tragedia casalinga. E i palazzoni, i boschi attorno a Tušino, questa cittadina oggi inglobata a Mosca, come le rive del fiume Skhodnya che l’attraversa, sono le quinte di un manifesto del neorealismo russo dove s’alluma il buco nero in cui è sprofondata un’umanità che trascina un’esistenza piena di molto ma priva dell’essenziale.
Tutto inizia su quella riva, dove un ragazzetto che pensiamo essere il protagonista si concede uno dei piccoli gesti di libertà e felicità che crediamo la vita possa offrigli: gettare un nastro biancorosso, di quelli che delimitano il pericolo, sui rami di un albero protesi sulla corrente verdemelma della Skhodnya. Non è lui. Il protagonista – quello che tale resta ai nostri occhi, anche se scompare dopo pochi spezzoni di film – se ne sta dietro ai vetri della sua cameretta, a guardare i coetanei giocare in un parco sulla stessa riva del fiume. Non è un ragazzo particolarmente socievole né conduce una vita disagiata, tutt’altro, se non fosse che i suoi si stanno separando, e lo fanno da carognoni quali sono. Cioè da persone normali prese dai loro guai, da sé stessi e dagl’immancabili telefonini e aggeggi tech, più che da ogni altra cosa.
Ženja e Boris sono due nemici più che due estranei, in attesa d’essere niente l’un l’altro. Ben oltre l’orlo di una crisi di coppia non se le mandano a dire, rinfacciandosi i fallimenti e la presenza di quell’unico figlio, ridotto a un peso che nessuno dei due è disposto a portare. Di nascosto da loro, Alëša ascolta quel che nessuno vorrebbe sentirsi dire, specie a dodici anni, e prende l’unica decisione saggia, per un dodicenne. Si dà alla fuga, dopo aver singhiozzato a lungo – una delle scene più commoventi e realistiche – nella sua cameretta piena di cose e vuota d’amore.
Neanche la scomparsa basterà alla coppia per ritrovarsi, tantomeno ritrovare sé stessi o un po’ d’amore nelle nuove vite verso cui sono proiettati. Boris si lascerà impaludare in un nuovo rapporto che s’annuncia estraniante al pari dell’altro. E la scena del secondo figlioletto recluso nella culla che piange gridando mamma fa il paio con l’altra, quanto a strazio. Neanche Ženja, oltre alle scopate e al benessere – che non son poco – caverà dalla nuova vita l’amore che è incapace di dare. Gli unici a darsi da fare per Alëša sono i volontari che nel gelo della periferia moscovita, tra palazzi abbandonati e boscaglie ghiacciate, cercano inutilmente il ragazzo perduto.
Quel figlio non si troverà, scomparso per sempre come ogni forma d’amore reale dalle vite di chi l’ha generato, espunto dal vuoto in cui è nato nel nulla che lo circonda. Il figlio della colpa, colpevole d’essere venuto al mondo senza amore, espia sparendo da un mondo privo d’amore. Restano gli altri, i colpevoli, con le tastierine su cui compulsivamente battono. Restiamo noi. Resta un film crudo e terso, i toni cupi della Mosca che è in noi, dove pure le scarrellate dei vassoi al selfservice sono ad arte e l’amore, come il coraggio di Don Abbondio, se non ce l’hai non te lo puoi dare.
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