«Ho scritto la fine dieci anni fa… Ho trovato la soluzione che mi piaceva e l’ho scritta di getto, non si sa mai se poi arriva l’alzheimer. Ecco, temendo l’alzheimer ho preferito scrivere subito il finale. La cosa che mi fa più sorridere è quando sento che il manoscritto è custodito nella cassaforte dell’editore… È semplicemente conservato in un cassetto». Era il 2006 quando Andrea Calogero Camilleri confidò a Repubblica l’aver messo le mani avanti, già da un decennio, sulla fine della creatura che gli ha dato fama e successo, Salvo Montalbano. Accanto all’ultima fatica del commissario più famoso d’Italia la Sellerio custodisce un altro inedito, pronto a diventare oro nelle mani dell’editore storico dello scrittore scomparso, di cui è noto il titolo: Riccardino. E chissà quanti ne usciranno, con ogni sorta di scartafacci, per fare cassa alla morte di quello che può a buon diritto definirsi padre della letteratura italiana, spirato alla bella età di quasi 94 anni. Un maestro senza regole, come titola il film documentario del 2014 su di lui che la Rai ripropone a ogni genetliaco.
In realtà di regole il maestro n’aveva, eccome: era ferreo nei suoi riti e canovacci, nonostante la cecità che non gl’impediva di sfornare storie sotto dettatura alla fida collaboratrice. Temeva il rincoglionimento, Camilleri, ma la sua fine è arrivata in modo diverso, con la classica rottura del femore – esiziale a ogni anziano – dopo una caduta nella casa romana. Cosa che non gl’impediva di partecipare al tiro al Salvini, come prima al Berlusca, caro ai pieddini. Poco dopo, a metà giugno, veniva ricoverato al Santo Spirito per un arresto cardiaco. Da allora viveva, per così dire, attaccato alle macchine.
Regista e docente televisivo e teatrale, prima che scrittore, Camilleri era nato a Porto Empedocle il 6 settembre 1925, e aveva dato alle stampe il suo primo libro con un ignoto editore toscano, a pagamento, nel lontano 1978. Non se l’era filato nessuno, né miglior fortuna aveva avuto fino alla metà degli anni ‘90. Quando sbanca con Salvo Montalbano. Non l’avrebbe mai ammesso, ma il suo commissario è una stampa e una figura, per dirla come lui, con quel Giuseppe Montalbano, agrigentino pure lui, già commissario di polizia, poi segretario regionale nella Sicilia dell’immediato dopoguerra e membro del comitato centrale nel Pci di Togliatti. Comunque sia andata, Montalbano lancia Camilleri nell’empireo dei grandi scrittori, grazie anche al volano delle serie tv che ne moltiplicano visibilità e vendite, facendone un personaggio di culto nella letteratura italiana contemporanea, tradotto in 120 paesi.
Con oltre cento titoli all’attivo e la bellezza di 25 milioni di libri venduti – a partire dai settant’anni – lo scrittore è egli stesso un autore di culto. Benché le sue non possano definirsi propriamente opere letterarie, tant’è che allo Strega, per dirne una, non s’è mai manco avvicinato, il suo successo è sotto agli occhi di tutti, la formula vincente, e i numeri stanno lì a testimoniarlo, come i tentativi d’imitazione. Tutti abortiti ma che hanno se non altro avuto il merito di sdoganare dialetti e linguaggi regionali presso il grande pubblico. L’unicum di Camilleri è stato questo: aver inventato una lingua sua, impasto d’italiano e siciliano mutuato dalla vita reale. Dalla necessità di far passare il tempo al padre malato, da lui assistito sul letto di morte. Storie che non avrebbe potuto raccontare, e scrivere, se non nel registro della lingua parlata, natìa.
Altra peculiarità – merito più grande, se possibile – è che Montalbano sia – checché ne dica Feltri senior – tra le poche letture coève capace di mettere quasi tutti d’accordo, restando quel che deve essere soprattutto un romanzo: un piacere. Una bontà a cui si perdona qualche sentore acidulo, le pecche presenti, sbavature che la regia televisiva di Sironi amplifica ma che nulla tolgono al piacere della lettura. A Camilleri si perdona tutto. I suoi libri, sempre in testa alle classifiche, non fanno in tempo a finire sugli scaffali che vanno a ruba, a ogni nuova uscita.
Come nel caso dell’ultimo Montalbano: Il cuoco dell’Alcyon, uscito alla vigilia del ricovero, anomalo adattamento a una sceneggiatura italoamericana che nonostante le sempiterne pecche «è un buonissimo libro», per dirla come l’autore. È che lo scrittore siciliano è stato per la parola scritta quel che Vasco è per la parola in musica: genio capace di raccontare storie che non puoi fare a meno di leggere; che si lasciano divorare anche se a volte sguazzano nel ripetitivo e nel papocchio. Storie capaci di piacere a tutti, trasversali alle generazioni e alle parrocchie politiche.
Il 15 luglio, Camilleri avrebbe dovuto partecipare alle letture teatrali alle terme di Caracalla, con lo spettacolo Autodifesa di Caino (autore caro, se non a Dio, a un altro genio della letteratura mondiale quale Saramago). «Se potessi vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e, alla fine del mio cunto, passare tra il pubblico con la coppola in mano», ebbe modo di dire più volte il maestro. Non gli è stato dato di finire così, ma non è escluso che l’anima di Camilleri giri davvero, coppola e sorriso alla mano, tra le torme dei suoi lettori affranti, prima d’andarsene nel paradiso degli scrittori.
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