Non abbandonate la speranza. Mai. Dice così un rigo del testamento di Lorenzo Orsetti. Guerrigliero andato a combattere e morire tra le file dell’Ypg, l’esercito di liberazione del Pkk, il partito comunista curdo, nell’ennesima ultima roccaforte dell’Isis, a Baghuz, appena liberata. Non è il primo italiano a lasciare la pelle in Siria, il fiorentino 33enne d’orientamento anarchico. Già a dicembre Giovanni Asperti, un maturo bergamasco, è morto combattendo coi curdi – contro i turchi, però – lasciando due figli piccoli. Perché? Entrambi credevano in un mondo più libero e giusto, con meno mancorrente e menefreghismo. Per l’ideale, dunque. Roba da volontari garibaldini.
Non è certo per soldi che loro, e la quindicina d’italiani, sono andati in Siria. Come nel Donbass pro o contro Putin, se d’altro colore, e prima tra i nazicroati in Krajna, se d’altro colore, contro l’ultimo stato socialista d’Europa. Non per mancanza d’alternativa o lavoro. Orsetti un lavoro l’aveva, persino meglio pagato della modestissima paga da combattente tra le file del Pkk, a differenza di chi s’arruola nei “peacekeeper” statali o, ancora, nella Legione. O tra i mercenari – loro sì, strapagati – che militano negli opposti schieramenti e tra gl’integralisti islamici che l’hanno ucciso, al soldo di ben altri padroni.
Si muore a Baghuz e altrove per fede politica, per un mondo diverso. Per spirito d’avventura. Per fuggire, pure, dal vuoto interiore e di un mondo desertificato dove niente sembra avere più senso, vita compresa. Ed è meglio cacciarsi nei guai degli altri, farli propri, ché starsene al chiuso dei propri. Difficile dire, capire davvero, cos’abbia spinto Orsetti, e come lui tanti altri, a superare la soglia di una guerra alle porte di casa. Più facile giudicare – dirli pazzi o eroi – o, meglio, stare zitti. Guardare da un’altra parte e far finta di niente, tanto i riflettori mediatici si spengono subito, sulle sabbie di Baghuz come d’altrove. Restarsene a casa, a social accesi e coscienza spenta.
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