I tre giorni che (ri)sconvolsero il mondo

Mosca 1991. Il golpe d’agosto, dieci anni dopo. Dal putsch annunciato al crollo dell’Urss. Alla vigilia della firma sul trattato dell’Unione, un manipolo di “conservatori” prende in ostaggio Gorbacev e tenta un colpo di coda per salvare il regime.  L’evento che ha trasformato il Paese dell’ottobre in un gigante senza volto. Il premier sapeva. Eltsin pure. E gli artefici del più macchiettistico pronunciamento militare dell’Unione sovietica non pensavano a nessun colpo di stato.

Non sono neppure un centinaio le persone che passecchiano negl’immensi spazi davanti la Casa Bianca. Nel decimo anniversario del golpe d’agosto, pochi hanno voglia di festeggiare davanti a quello che fu l’epicentro della resistenza poi divenuta controgolpe che fece tabula rasa dell’impero sovietico, come nel resto del paese. Dieci anni dopo, solo Mikhail Gorbaciov, fresco reduce dalla stretta di mano al Cremlino con Vladimir Putin, che la riammesso a palazzo, ha ancora voglia di dire: «Il Golpe? Fu unna questione d’interesse, niente di più. Un tentativo di sostituire una dirigenza sana con una malata». E solo Gennady Yanaev, allara vicepresidente dell’Urss e uomo forte dei golpisti, gli fa eco dai microfoni della Ntv per ribadire come allora «il nostro paese era in crisi totale. C’era una lotta per il potere tra le forze che volevano mantenere la struttura politica e sociale e forze che volevano il collasso di un grande stato». I suoi compagni d’avventura sono scivolati nel dimenticatoio come Pavlov e Tyziakov o in fila per la pensione, come Yazov e Kriuchkov. Hanno tentato di riciclarsi come Baklanov e Starodubtsev o sono rimasti fedeli agli ideali d’un tempo, come Lukjanov che ancora siede sugli scranni dei parlamentari russi comunisti, oppure Valentin Varennikov. Unico fra i golpisti a non avere accolto l’amnistia generale e ad essere ancora perseguito dalla suprema corte russa. Oggi che Boris Eltsin, l’uomo che li fermò saltando su un carro davanti al parlamento russo, è uscito di scena sotto il peso dei troppi bypass nel cuore e della troppa vodka nello stomaco, un paese senza volta ha poca voglia di ricordare le loro fantasmatiche presenze e quei giorni.

La notte di Belbek, in Crimea, non è neppure striata dai colori dell’alba quando due trattori si trascinano sbuffando sulla pista dell’aeroporto, a bloccare l’aereo di Mikhail Gorbacev. Nello stesso momento, la polizia circonda il Telecenter di Leningrado. Agli ordini di Alexander Belyaev, segretario del Soviet locale, militari in divisa occupano gli studi televisivi. Sui tram, gli operai osservano incuriositi gli agenti piantonare l’edificio. L’immenso corpaccione dell’Urss si muove al tempo dei suoi undici fusi orari, ma per tutti quel 19 agosto sarà un lunedì assai diverso dagli altri. Occorreranno ancora oltre due ore perché i viaggiatori della metropolitana moscovita possano ascoltare, nel gracchiare dei diffusori, il messaggio col quale un sedicente comitato di stato d’emergenza assume il potere a causa delle condizioni di salute del segretario del Pcus e presidente dell’Unione sovietica. In calce al comunicato, trasmesso alle sei e mazza da radio e tv, le firme di otto dignitari di stato e di partito: la punta dell’iceberg che osteggia la perestrojka gorbacioviana.

Gennadi Yanaev, 53 anni, è l’incolore vicepresidente dell’Urss che Gorbacev ha imposto ai recacitranti deputati al quarto congresso del popolo, pochi mesi addietro. Valentin Pavlov è il primo ministro dell’Urss. Pragmatico più che conservatore, ha appena un anno in più dell’altro. Vladimir Kriuchcov, presidente del Kgb, è forse il più autorevole del gruppo, per anni (67) e poteri. Neppure Dmitrij Yazov, 68 anni ben portati, è un novizio privo di peso, quale ministro della difesa dell’Urss. Boris Pugo, ministro dell’interno, di anni ne ha 54 ma anch’egli è un vaso di ferro nella compagnia. Come Oleg Baklanov, 59 anni, primo vicepresidente del consiglio di difesa dell’Urss. Meno noti e importanti gli altri due “golpisti”: Vasilij Starodubtesv (60 anni), leader degli agrari, e Alksandr Tiziakov, rappresentante degl’industriali delle imprese statali. Ma altri si muovono all’ombra dei congiurati, in una zona grigia destinata a sostenerli senza scoprirsi troppo. Due nomi fra tutti, calibri da novanta defilati in attesa degli eventi: Anatolij Lukianov, presidente del Soviet Supremo dell’Urss, e Aleksandr Bessmertnikh, ministro degli esteri d’una superpotenza mondiale oramai al collasso.

A fronteggiarli, la galassia dei riformatori: i democratici d’ogni colore, usciti dall’intellighentsia e dalle file degli aparatcki che rigettano il mito del partito padre e padrone, i nuovi ricchi allignati tra le pieghe del socialismo relizzato che sognano il liberismo d’un mercato tout court, la massa di popolo che ondeggia tra le aperture promesse dalla glasnost e le miserie del vivere quotidiano. A fronteggiarli, soprattutto, l’anelito di libertà che sale dalle repubbliche dell’impero sovietico, insofferenti d’un centro che rappresenta ai più solo una gabbia di popoli e risorse vitali. Un contropotere pronto a organizzare la reazione popolare – sarà, questa, una delle maggiori sorprese per gli organizzatori del pronunciamento – personificato da tre uomini che dalle sei del mattino sono tappati in una dacia ad Arkhangelskoe, poco distante da Mosca, per sottoscrivere un appello a resistere alla nuova giunta di potere. «Quali siano le cause della destituzione del presidente del paese – si legge nel proclama – noi ci troviamo di fronte a un colpo di stato di destra, reazionario, anticostituzionale… Tutte le decisioni del comitato sono illegali… Chiamiamo i cittadini della Russia a dare una risposta dignitosa ai putschisti… Chiediamo l’immediata convocazione di un congresso straordinario dei deputati del popolo dell’Urss… Proclamiamo lo sciopero a tempo indeterminato…».

Firmano il comunicato Ruslan Khasbulatov, vicepresidente del parlamento russo, il capo di governo Ivan Silaev e Boris Eltsin, presidente della Russia e catalizzatore del nuovo che avanza nel paese dei Soviet. Sarà lui, con l’appello in tasca, a percorrere i trenta chilometri che separano la sua dacia dalla Casa Bianca, il parlamento russo dove vanno riunendosi gli oppositori alla giunta golpista, slalomeggiando indisturbato fra le colonne dei tanki che nella tarda mattinata occupano le vie d’accesso alla capitale, la piazza del maneggio, il centro e i gangli del potere moscovita. La gente osserva stupefatta carri e blindati delle brigate Tioplistan e Tamanskaja segnare l’asfalto cittadino per mettersi in postazione – bocche da fuoco rigorosamente coperte – li avvicina, bussa ai portelli. I soldati che ne escono, non meno stupiti, spiegano d’essere lì ad eseguire ordini. Quali, neppure loro sanno. Si lasciano avvicinare dalla folla che chiede, sommerge, fanno salire bimbi sui carri e sorridono alle ragazze coi capelli nastrati dal tricolore russo. Anche i soldati ne sventolano, bandierine bianche rosse e blu come a una festa di piazza, ma le facce sono scure, tirate.

Alle undici anche Eltsin, acclamato leader della resistenza, sale su un blindato davanti alla Casa Bianca per chiamare i russi allo sciopero ad oltranza e reclamare il controllo dell’esercito nazionale. È il suo momento di gloria: la folla applaude, i soldati fraternizzano. Da nemico giurato di Gorbaciov ne diviene strenuo difesore – altra sorpresa dei golpisti – in nome della legalità violata, ne chiede l’immediato rilascio. L’uomo inviso a tutti – riformisti, conservatori e gente qualunque – presidente d’una federazione che va sgretolandosi e segretario d’un partito Moloch dai piedi d’argilla, è di fatto in stato d’arresto coi famigliari nella dacia residenziale di Foros, in Crimea. Circondato dagli Omon della sicurezza, ma difeso da una trentina di guardie presidenziali fedeli. Virtualmente isolato dal resto del mondo, vede in tivù la conferenza stampa con la quale la giunta golpista rassicura tutti sulla sua salute – tornerà appena ristabilito, si dice ai giornalisti assiepati – e vieta manifestazioni di piazza e libertà di stampa. Conosce bene quegli otto per averli messi lui stesso, benché nemici dichiarati della sua politica di riforme, ai posti di comando che ora occupano. Contentino alla destra, secondo alcuni, o tattico ricorso ad essa contro i suoi nemici di sinistra, ne conosce intenti e progetti.

Già buona metà del gruppo l’aveva messo in guardia a giugno, dopo l’accordo di Novo Ogariovo con Eltsin che avrebbe dovuto dare luogo a una federazione di repubbliche sovrane e non più socialiste fra gli stati dell’impero. La prima firma sotto quel patto che rappresenta “una terribile sventura”, come denuncia il quotidiano Sovietskaja Rossija, portavoce di quanti non si rassegnano allo sfacelo dell’Urss, sarebbe dovuta arrivare proprio il giorno del golpe. Ha negato la firma al decreto sullo stato d’emergenza che gli inviati dei complottardi erano venuti a chiedere il giorno prima nella sua dacia, ma non ne denuncia le intenzioni. Anzi secondo molti, fra i quali l’ex ministro degli esteri Edvard Shevarnadze, ha concordato con loro il complotto. Quasi a postuma discolpa, Gorbaciov si fa riprendere dal cognato in un filmino destinato a smentire collusioni, a provare che è vivo e vegeto, ancora. E mentre il paese che da sei anni tenta di riformare scardinandone il sistema s’interroga sul suo stato di salute, il resto del mondo spera e dispera. Si felicitano coi golpisti Gheddafi per la “coraggiosa azione storica” e Saddam Hussein per il “ripristino del corretto equilibrio internazionale”; “prende atto, per il momento”, il governo Andreotti, si dichiara “vivissimamente preoccupato” il presidente Cossiga e assicura “sostegno alla lotta per riportare al potere il presidente costituzionalmente nominato” George Bush.

La giunta raccoglie così pochi consensi esterni, mentre le repubbliche baltiche cominciano a sfilarsi dall’Unione e sulla piazza Rossa, attorno al parlamento, si ergono le prime barricate. Rotaie divelte, filobus a spina di pesce, tondini di ferro e blocchi di cemento bloccano le vie d’accesso alla Casa Bianca, bivacchi s’accendono nella pioggerellina fitta. Proteggono e asciugano quanti, giovani e vecchi, parlamentari e soldati, intendono resistere all’attacco da tutti atteso e temuto al contropotere sovietico. E il cuore della grande madre Russia sostiene gli insorti, chitarre e vodka ne scaldano i cuori. Ma nessuno muove all’assalto degli insorti, asserragliati a palazzo. Solo pochi razzi sparati in cielo allumano la facciata della Casa Bianca nella prima notte di golpe, le forze speciali non interverranno. Chi le comanda ha già deciso con chi stare, dietro compenso di prebende o per convinzione. Come il comandante dei parà bloccati dal generale Pavel Gracev, promosso ministro della difesa russo da Eltsin, o gli ufficiali del Kgb che da mesi lo informano puntigliosamente delle mosse dei reazionari.

È in questo scenario che si consuma la notte del 19 e buona parte del 20, quando in serata a Mosca si decreta il coprifuoco e Eltsin assume il comando delle forze armate russe, spazzando via per decreto ogni potere alternativo al suo. I congiurati appaiono frastornati, incerti sul da farsi. Chiusi nei loro palazzi, accusano la tensione – come Pavlov, che crolla per l’emozione – o rassicurano i resistenti di dormire sonni traquilli, come Kriuchkov dal suo ufficio alla Lubianka. Eppure la seconda notte a Mosca si spara, ci scappa il morto. Tre, per la precisione: un reduce d’Afghanistan, un ragioniere e un poeta. Morti durante un tafferuglio con un plotone carri che, percorrendo il kolzò interno, s’è trovata la strada sbarrata da un blocco degli assediati. Eroi popolari della resistenza al colpo di coda d’un regime morente.

Il 21 Mosca si sveglia – ma pochi hanno dormito, quella notte – con la legge marziale decretata dal comandante della piazza, Kalinin, e la gente in fila a portare fiori sulle lamiere contorte e chiazzate di sangue che segnano lo scontro notturno. L’ora della verità scocca nella tarda mattinata. Il parlamento russo, in seduta straordinaria, rifiuta ai golpisti di mandare una delegazione congiunta da Gorbaciov, come pure chiede il numero due del Pcus, Vladimir Ivashko. Nei silenti uffici della Piazza Vecchia, la sede del Pcus, quel che resta dell’apparato, rifiutando il congresso straordinario che avrebbe dovuto avallare il putsch scava – letteralmente e paradossalmente – la fossa per sé e i golpisti. Per uomini abituati alla disciplina di partito avanti tutto, è il niet più pesante. Così giocano l’ultima carta, nel mazzo sparigliato, la più raffazzonata. Quattro degli otto saltano sulle Zil ministeriali, precipitandosi a Vnukovo per imbarcarsi sul Tupolev che dovrebbe portarli da Gorbaciov. Sulla medesima strada e con le stesse intenzioni sfrecciano i macchinoni neri di altre due delegazioni, quella dei parlamentari russi e dei vertici di stato e di partito che corrono anch’essi alla dacia di Foros.

È il primo pomeriggio quando dai microfoni installati sull’immenso spiazzo del parlamento i manifestanti ascoltano la voce di Eltsin tuonare: «Scappano, vittoria!». Al telefono, il “prigioniero” Gorbaciov gli ha già assicurato che i quattro sono in anticamera ma non li riceverà. Ha anche sentito i presidenti delle repubbliche amiche. Tutti dalla sua. Alle 20, rilascia una dichiarazione alla tv di stato, già epurata dei malfidi: «Ho il pieno controllo della situazione del paese». Prima della mezzanotte il Tupolev che lo riporta a Mosca è già in volo. A pochi sedili gli uni dagli altri, si guardano in cagnesco protagonisti e comparse del putsch da tempo annunciato e malmesso in scena. Ostaggi gli uni degli altri: carcerieri, liberatori e liberati che il destino sta per cambiare di posto ma affosserà insieme. I quattro golpisti trovano ad attenderli gli agenti della procura moscovita anziché i propri autisti. Prigionieri del proprio senso dello stato, avevano solo mimato una prova di forza alla quale molti s’erano tirati indietro al momento d’entrare in scena, lasciando sedie vuote ai fischi della platea. Qualcuno, come Pugo e signora, veniva suicidato con un colpo in bocca, lasciando scuse scarabocchiate su un foglietto e la pistola sul comò. Al posto del loro finto golpe altri faranno un controgolpe vero. I decreti di scioglimento del Pcus, di nazionalizzazione dei beni dello stato, sono già alla firma di Eltsin, deus ex machina a cui tutto è possibile, ora. I nuovi ricchi premono, l’Occidente plaude e la folla applaude.

Non Gorbaciov, tornato libero in un paese che non c’è più. Ostaggio dei vincitori che lo tengono a galla solo per meglio affossare il passato. E a decidere il suicidio di massa sarà proprio lui, dimettendosi da segretario del Pcus e decretando quel che di fatto sta già avvenendo sotto gli occhi di tutti, mai neppure immaginato e da molti sognato. Lo scioglimento del Pcus, la fine del partito-stato. Sarà lo stesso Gorbaciov a chiederlo al parlamento monstre da lui stesso creato, agli ultimi dinosauri della burocrazia cheancora portano il distintivo all’occhiello ma sognano d’avere dollari in tasca. E loro s’allinearnno compatti, la notte di Natale, a deretare la propria fine. Il nuovo tricolore che si levava, quella notte, sul pennone del Cremlino, metteva fine all’esperimento avviato 72 anni e qualche mese prima – pure Nostradamus l’aveva pronosticato – dando vita a un gigante senza volto ma dalle mille anime. Dove, nel decennio a seguire, non pochi avrebbero rimpianto l’ammainarsi di quel vessillo, di quel mito che aveva fallito in nome d’un altro che l’aveva affossato.