Mosul ultimo atto. Mosul sta per cadere. Scontro finale a Mosul. Sono mesi che la martoriata capitale del Kurdistan iracheno sta lìlì per cascare, nei titoli dei media e nei proclami degli assedianti. In realtà, dopo mesi d’assedio i miliziani dell’Isis restano lungi dal mollare la presa. Era d’ottobre quando il premier iracheno, lo sciita Haider al Abadi, annunciava in notturna tv l’inizio dell’offensiva finale su Mosul, in uniforme e scarponi militari. Da allora l’assedio è andato avanti, sanguinosamente e faticosamente, e nel tira e molla resta sotto controllo del califfato la città vecchia. Come dire la polpa della città contesa, una decina di chilometri quadrati espugnabili a prezzo di perdite ancora più salate.
Il perché di tanta resistenza non è soltanto nella capacità bellica dei mujaheddin, ridotti a poche centinaia di combattenti, quanto nella tela di Penelope tessuta da chi vuole togliere Mosul all’Isis, ma non certo per consegnarla a un regime iracheno filoiraniano. E tanto meglio se questo e i suoi pasdaran – le Fmp, Forze di mobilitazione popolare sciite – si dissanguano nella battaglia. E tanto peggio per le vittime civili mietute dai bombardieri Usa dal cielo di Mosul a centinaia, denuncia il Patriarcato Caldeo, nell’indifferenza generale. Lì mica siamo ad Aleppo, non c’è il bieco Assad da accusare di bombardare col gas, né Ondus sovvenzionate dai servizi segreti dei bombardatori a lanciare appelli umanitari a senso unico.
Che Mosul cada, a caro prezzo, è però solo questione di tempo. Il problema è il poi. Già il presidente del Kurdistan iracheno, Masoud Barzani, ha fissato un referendum per l’indipendenza dall’Iraq il 25 settembre che riguarda anche Mosul, capitale del nuovo stato. Il malcerto governo di Al Abadi ha protestato, come la Turchia, ed è evidente che appena i ceffi neri del califfo saranno espulsi dall’Iraq, inizierà un’altra partita armata nel Kurdistan, spalleggiato dal suo main sponsor a stelle e strisce.
Quanto detto per Mosul vale a maggior ragione per Raqqa. Nella capitale siriana del califfato assediata dalle milizie curde filoccidentali resistono le ultime sacche, mentre i jihadisti esfiltrano a sud, nel corridoio lasciato libero dai bombardieri angloamericani, per stabilizzare il fronte del deserto dove russi e siriani avanzano a fatica. La Turchia s’è già ritagliata un bel pezzo del futuro Kurdistan, per farne un’area cuscinetto contro l’incubo che si materializza ai suoi confini. Anche la Siria, come l’Iraq, è di fatto più trina che una e neanche il tempo di sparecchiare le bandiere nere del califfo Al Baghdadi (dato per ammazzato ma chissà) che una nuova guerra s’apparecchia alle porte d’Oriente.
Per certo, c’è solo che la moschea di Mosul, da cui il califfo nero invocava la guerra contro i nuovi crociati, chiedendo ai suoi di prendere Roma e sottomettere l’Europa, non c’è più. Pure il traballante gobbo di Al Nuri, il vecchio minareto del XII secolo voluto dal sultano Norandino (Nur ad-Din Zangi) per unificare i musulmani contro gl’infedeli d’allora, da Mosul ad Aleppo, è venuto giù. Se fatto brillare dai miliziani in rotta o, più probabilmente, crollato nei bombardamenti, vai a sapere. La storia si ripete, come sempre, e non insegna niente.
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