L’arte di un paese giovane e antico in mostra alla fondazione Würth
Piglia gli stessi abitanti di Roma, sperdili su una landa desertica grande tre volte l’Italia. Qualche città baleniera che non offre manco più sbuffi all’orizzonte marino, miniere d’uranio e diamanti che fanno la fortuna di pochi, i molti ancora a vivere tra bestiame e capanne, come ai tempi del cucco, per la gioja dei turisti che si spingono fin qua. Benvenuti in Namibia, ex Africa del Sudovest, già Namaland.
Ex dominio tedesco strappato agli afrikaneer scampati agli inglesi ai primi del secolo scorso. Colonia teutonica che con metodi spicci fece tabula rasa dei nativi Hororo, rinchiudendo gli scampati nelle riserve, o konzentrationslager, come gl’indiani d’oltreoceano, prima d’essere tolta al kaiser col trattato di Versaglia. Tra gli ultimi paesi africani a raggiungere l’indipendenza dallo stato più razzista del continente, il Sudafrica, dopo una lotta ultraventennale della guerriglia marxista filocubana della Swapo. Alla periferia della capitale Windohek ancora si festeggia, ai primi di maggio, il giorno di Cassinga: la battaglia, giro di boa, che pochi fuori dal paese ricordano.
Da queste dune, da queste cave, da questi palazzoni di qualche pretesa e baracche fatiscenti alla periferia del mondo che scimmiotta miti e riti dell’Occidente urbanizzato e ne assomma più vizi che virtù, esce la pletora d’artisti esposta alla fondazione Würth per l’annuale mostra all’Art forum di Capena. Trentatré, come gli anni del Cristo, i nomi che marazzano di forme e colori d’Africa le mura squadrate dello spazio capenate voluto come centro espositivo d’arte contemporanea presso il polo di stoccaggio della casa madre. Una delle intuizioni del fondatore Reinhold Würth, luogo d’esposizione per la sua collezione d’arte che vanta la bellezza d’oltre 18mila pezzi, messi in mostra a rotazione e in questo caso provenienti dal museo di Künzelsau.
La Namibia, dunque. Sono artisti delle nuove generazioni, come recita il sottotitolo della mostra, venuti al mondo dopo l’indipendenza, ma anche veterani delle lotte contro l’occupazione e la segregazione razziale. Autoctoni e non. A mezza via tra innovazione e tradizione, tra forme e modalità che si rifanno a tendenze e linguaggi della modernità, soffermando lo sguardo sulle tecniche e il vissuto d’un paese travagliato. Il paesaggio namibiano nei baraccamenti semisepolti dalla sabbia a Kolmanskop di Paul Kiddo. La spiritualità d’un mondo senz’anime di Papa Ndasuunje. I tappeti libertari di Linda Esbach. Le luminescenze fotografiche di Margareth Courtney Clark. I varani appesi di Iita Saima.
C’è tanto colore, roba che può dirsi d’arredo più che d’arte, ma anche molto di genuino, di reale. E quel che cattura più l’occhio e i pensieri, nell’ottantina di pezzi esposti, più che i tappi multicolorati e le cerate strazzate, sono i quadri materici di Shivute e i diorami di Kalunda, coi laminati di scatolame e i macchinoni sotto la tettoja di plastica e compensato. La Namibia ultramoderna e antica, poverissima e ricca. Fino al 14 ottobre 2023, Art forum Würth Capena, info www.artforumwuerth.it
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