Primo giorno di scuola Le parole sono pietre

Riflessioni di un genitore assente e un osservatore fuori tempo sull’ingresso alle medie 

Oggi è stato il primo giorno di scuola. Non il primo in assoluto, ma il primo della prima media. Del mio primo giorno di medie non ricordo nulla, e delle medie in particolare non ho buoni ricordi, botte e minacce, ma nessuno allora parlava di bullismo. La prima cotta per una ragazzina della mia classe, poi un’altra. Non ricordo nulla in particolare, se non che a scuola andavo bene ma non certo volentieri. I miei figli invece, aspettavano il primo giorno di scuola con gioja, la sola emozione positiva e la più importante, non vedevano l’ora. Incomprensibile. Non che mi dispiaccia, tutt’altro, ma è fuori dalla mia portata, dal mio vissuto. Fino all’università, anzi all’occupazione dell’università, per me la scuola è stata solo una rottura. Ma non è di me che si parla.

Come tutti i bravi genitori, assenti per buona parte della giornata o altrove anche se presenti, mi sono intruppato anch’io all’accompagno. La scuola media è a due passi dal cuore del quartiere, un po’ discosta da un ultimo grumo di case. Non è ancora periferia ma non è più centro, in linea d’aria dista poco più d’un chilometro dal Colosseo, ma pare d’essere in una qualunque borgata. Un pezzo di nulla nel niente d’intorno, se si escludono centri commerciali e negozi. Però c’è una gran piazza, dove la gente per forza di cose passa o sosta, e questo ne fa un pezzo di paese nel mezzo della città; lo rende se non unico, quantomeno raro.

Lì, aggrumato al cancello d’ingresso assieme a dozzine d’altri, osservavo. La cancellata scrostata, a separare il mondo dilà, ancora irreale, dalla realtà del mondo. La targa della scuola, dedicata a un noto pedagogista, relegato nel dimenticatojo della passamaneria di sinistra. Il camion del pronto intervento gas, venuto a verificare una fresca manomissione alla centralina. Metà del plesso è occupato da abusivi, tra cui amici, conoscenti. Le loro cose, bucati appesi e giochi di bimbi, s’intravedono dalla rete di separazione, provvisoria da decenni. Dalle finestre aperte, ex aule trasformate in cucinini e salottini. Ovunque erbacce, alberi cresciuti a dismisura, ex aiuole che da anni non conoscono cure o potatura. Fantasmi di natura dirompente tra le crepe dei muri e il selciato dismesso, reclamante vita.

Tutto lasciava intravedere un senso di tristezza, d’abbandono che cozzava con l’allegria caciarona dei ragazzini, il vociare dei genitori che si rincontravano, alcuni per la prima volta, dopo le vacanze. Poi dal cancello aperto la folla è vomitata dentro, madri e famigli frammisti ai figli, travolgendo quasi i più timidi o ritardatari. Alcune, se avessero potuto, li avrebbero seguiti fin nelle aule, scelto i posti, sistemate le loro cose sui banchi, c’è da giurarci. Oltre l’ingresso, sospesi davanti all’atrio, mentre si levavano i nomi dei componenti le classi, osservavo. Le pezzature dei muri scrostati, l’asta della bandiera italiana troncata di netto, quella europea a brandelli, i resti avvoltolati su sé stessi.

Un bambinetto, semischiacciato da uno zaino enorme, traballava sotto al peso, discosto da tutti, sconsolatissimo, mentre il padre, un omone, gli sussurrava qualcosa, chino su di lui. Mestamente, spinto dalle raccomandazioni paterne, s’è accodato agli altri cercando di scavalcare la selva di gambe e braccia che si agitavano, mani plaudenti la sfilza di cognomi e nomi – rigorosamente in quest’ordine – dell’ultima classe che si andava formando, e scatti di telefonini. Quel bimbetto, così fragile e dall’aria sconsolata, mi pareva l’unico essere dotato di buon senso, ancorato al reale, in quel momento. L’avrei abbracciato.

Dentro, le piogge del giorno prima avevano lasciato una sorta di piscina in cortile. Sulle vetrate, da dove s’intravedeva la pozza, un cartello con un disegno e una scritta fintamente infantile: fogna. Mi sono avvicinato, ho letto meglio: sogna. Ah, ecco. Quando ti deciderai a portare con te gli occhiali… Cartelloni colorati inzeppati di corbellerie buoniste, frutto dell’opera congiunta di docenti e discenti di buonissima volontà e scarsi mezzi, tappezzavano i corridoj. Dai banchi dell’aula magna, scarabocchiati come si conviene, la preside ha tenuto il concione, spalleggiata da un paio di professori non impegnati nell’accoglienza agli alunni. La puntualità, il decoro, raccomandava. L’educazione e il senso critico che la scuola fornisce ai ragazzi, là dove la famiglia non riesce né osa. Poi la parolina magica: l’inclusione, o meglio (peggio, semioticamente parlando) l’inclusività. Il Verbo del mondo nuovo, icona della civiltà occidentale al suo tramonto.

Se avessi avuto voglia di critica, come pure il vocabolo suppone, o semplicemente voglia, avrei chiesto alla preside, compunta nel suo ruolo, di spiegare il senso delle sue parole in quel contesto, il significato di quel termine in questo mondo che maschera le peggiori assurdità come verità. E da’ alle parole il contrario del loro senso. Ma sarebbe stato chiedere troppo anche a me stesso, e fuori luogo. Così ho scacciato l’idea che una mezza ala di quel cacciabombardiere con cui andiamo a battagliare in nome della libertà, pagato ai nordamericani, avrebbe rimesso a nuovo l’intero complesso. Magari ridato pure una casa vera agli abusivi. Ho scacciato il ricordo d’una scuola in un villaggetto russo, tant’anni fa, con le bimbette – il fluido gender non aveva ancora inebriato l’Occidente, tantomeno l’Oriente – che regalavano mazzetti di fiori raccolti per strada alle maestre. Ma lì c’era l’odioso socialismo realizzato. Ho rimosso il ricordo di un’altra scuola d’un borgo tirolese dove i bambini stavano in religioso silenzio pure a ricreazione. Ma lì la parola comunità non era vuota, lo stato non era solo oppressione. Ho pensato che almeno qui non c’era una serpe che aveva morso una bidella, come al Portuense, o cinghiali in cortile. Non sono riuscito ad applaudire, a condividere la gioja del momento, ma ho sorriso come chi vagamente acconsente, d’accordo. Poi mi sono accodato all’uscita, come tutti. Fuori brillava il sole.


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